Nell’era dello streaming quando guadagna un artista?
Lo streaming è arrivato (in Italia) a ricoprire il 63% del valore del mercato discografico italiano. Lo dice l’ultimo report diramato da FIMI in occasione della chiusura del primo semestre del 2019 (qui per recuperare tutti i dati a riguardo).
Bene. O male. Decidete voi a seconda delle vostre convinzioni e delle vostre idee perchè, se da una parte è vero che lo streaming sta obiettivamente tenendo a galla un mercato industriale che fino a qualche anno fa era destinato a crollare sotto i colpi della pirateria, è anche vero che, dall’altra parte, proprio alla fruizione digitale della musica dobbiamo gran parte degli effetti negativi (non solo quantitativi ma, a par mio e non solo, anche qualitativi) che l’arte canora oggi è costretta a vivere nel nostro Paese e non solo.
Ma, venendo al concreto, quanto guadagna effettivamente un artista oggi grazie alla propria musica diffusa per mezzo di Spotify e soci? Poco. O meglio, poco a meno che non sia al numero uno delle classifiche. Insomma, un po’ come per la ricchezza mondiale anche nella musica i soldi, quelli veri, stanno nelle mani di pochi soggetti, pochissimi.
Per rendercene conto dobbiamo considerare che dei 232 milioni di utenti iscritti alla piattaforma di Spotify che, nel settore dello streaming rappresenta ad oggi il leader indiscusso, circa 108 milioni sono gli abbonati paganti. E’ da loro che la piattaforma incassa le cifre più importanti visto che dei circa 120 milioni di utenti free gli introiti derivano unicamente dall’inserimento della pubblicità nell’intermezzo dell’ascolto tra un brano e l’altro. Da tutti gli incassi, però, il colosso svedese restituisce alle etichette discografiche (e dunque agli artisti) appena il 70% degli introiti.
Tanto o poco? Poco probabilmente perchè se si considera che per la maggior parte degli artisti i guadagni rasentano il ridicolo vedersi privare, già in partenza, anche del 30% di quelle somme non è esattamente la notizia più felice tra quelle che sarebbero potute arrivare. Ma che cosa arriva in tasca all’artista dunque? I compensi sono soggetti ai più disparati accordi tra le parti e dipendono da moltissime clausole ma, mediamente, si calcola che un artista possa incassare dai 4 ai 7 centesimi per ogni ascolto legale sulla piattaforma di audio-streaming. Ovviamente, se l’utente che ascolta non è abbonato il compenso sarà più basso.
Facendo, dunque, un rapido calcolo e prendendo per modello la hit italiana più ascoltata di sempre (per ora) su Spotify (e cioè ‘Soldi’ di Mahmood) si deduce che i circa 100 milioni di ascolti collezionati si traducono in circa 4 milioni di euro di guadagno per l’artista. Se tutti gli ascolti derivassero da utenti abbonati che, in realtà, ad oggi si aggirano (in Italia) intorno ad un terzo del mercato il che fa notevolmente abbassare la cifra che rimane comunque da dividere in eque e proporzionali parti tra gli autori del brano, il cantante, i diritti di edizione, le spese, i guadagni delle etichette discografiche, il compenso del produttore ecc…
Chi, invece, a fatica racimola la già mastodontica cifra di 100.000 ascolti? Beh gli incassi sono di appena 4 mila euro che, ad occhio e croce, forse nemmeno ripagano le spese di realizzazione di quel brano. Togliamoci poi i vari compensi e tutti gli ascolti “illegali” o “non-Premium” e la cifra si sgonfia in un baleno.
Insomma, se dette tutte d’un fiato le cifre dei ricavi musicali possono apparire ragguardevoli quando ci si lavora con calcolatrice alla mano le cose son ben diverse e presentano un panorama alquanto desolante. Insomma, “il Re è nudo” verrebbe da dire rievocando i ricordi d’infanzia di una celebre fiaba di Hans Christian Andersen peccato che, in questo caso, la cosa sia dovuta non alla sciocchezza di un sovrano vanitoso ma piuttosto al fatto che i soldi per dei vestiti nuovi scarseggino nelle tasche di molti, molti artisti. La colpa? E’ nostra (e un po’ anche loro, diciamocelo).
Ilario Luisetto
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