A tu per tu con il cantautore e giornalista napoletano, fuori con il nuovo singolo intitolato “Kebrat“
Tempo di nuova musica per Nando Misuraca, artista che ha deciso di tornare sulle scene con un brano dalla tabetica importante, più che mai attuale. “Kebrat” è il titolo della canzone, ma anche il nome della protagonista, ovvero una ragazza eritrea sbarcata a Lampedusa sette anni fa. Una storia vera, che abbiamo voluto approfondire insieme al cantautore e giornalista napoletano. Approfondiamo la sua conoscenza.
Ciao Nando, benvenuto. Partiamo dal tuo nuovo singolo “Kebrat”, cosa racconta?
«E’ una storia vera. Kebrat è una ragazza eritrea sbarcata a Lampedusa nell’ottobre 2013. Durante questo naufragio persero la vita la quasi totalità di immigrati giunti sulle coste siciliane. La stessa Kebrat fu ammassata tra gli altri corpi in attesa dell’attestazione di avvenuto decesso. Ma lei era viva, in ipotermia ma viva, se ne accorse il Dott. Pietro Bartolo, allora medico di Lampedusa e praticò su di lei un disperato tentativo di rianimazione che, per fortuna, andò in porto. Questa storia l’ha raccontata nel suo libro “Lacrime di Sale” edito da Mondadori, da cui ho tratto spunto per comporre la canzone. Ho conosciuto poi Bartolo a Napoli e gli ho parlato di questo progetto. Ne è stato entusiasta, ancor di più quando ha ascoltato il provino della mia opera».
Hai sentito il peso e la responsabilità di un tema così importante?
«Non credo che l’impegno civile sia un peso, anzi, credo debba essere uno stato di default di ogni cittadino perbene. Io sono un giornalista che fa musica per comunicare e per me, raccontare storie vere, è un obbligo morale. Sensibilizzare le persone, in un’epoca in cui la superficialità la fa da padrona, è andare un po’ controcorrente rispetto alle masse e ciò, onestamente, mi piace e mi fa sentire bene. Mi sento utile agli altri».
Una tematica molto attuale, una problematica che tutt’oggi induce tante domande. Scrivendo questo pezzo, sei riuscito a darti delle risposte?
«Sì. E’ che noi, nella stessa situazione degli africani faremmo la stessa cosa, fuggiremmo in massa alla ricerca di una speranza di normalità. Siamo stati immigrati nei primi del ‘900 e dopo la seconda guerra mondiale verso il Sudamerica, gli Stati Uniti ed altri paesi dell’Europa. Il diritto ad un’esistenza tranquilla credo sia necessario per ogni essere umano. Credo che la quasi totalità d’Italia sia ampiamente pronta a ricevere lo “straniero” non considerandolo invasore bensì una potenziale risorsa arricchente, sia culturalmente che sul piano di “forza lavoro”. Tuttavia, c’è da dire , che un’altra parte, soprattutto quella filo-leghista e di estrema destra continua a vedere gli africani come usurpatori di una privacy territoriale prestabilita dai connotati oltremodo razzisti».
Dal punto di vista musicale, invece, che tipo di sonorità hai voluto abbracciare per sottolineare l’importanza di ogni singola parola?
«E’ una canzone di cantautorato con influenze pop-rock, come nella mia tradizione. L’ho concepita (nella sua versione extended che troverete nel disco) come un vero e proprio cortometraggio, cosa che si scorge, seppur in parte, nella versione che suona in radio. La prima fase, quella della partenza dall’Africa, ha un’andatura sonora più calma e sognante per poi incresparsi nella seconda parte quando c’è l’inevitabile scontro di queste persone con l’iceberg della realtà, rappresentato dal mare e dall’inadeguatezza dei mezzi di trasporto usati, gli ormai tristemente noti barconi con i quali i migranti giungono sulle nostre coste. Gommoni sovraffollati che, per selezione naturale, pur di mantenere la propria stabilità, lasciano morire persone nel mare durante il tragitto. In mezzo a tutto questo c’è il ritornello, arioso, volante, carico di speranza. Il fulcro di tutto, il sogno di libertà di queste anime erranti».
Facciamo un salto indietro nel tempo, come e quando hai scoperto la tua passione per la musica?
«Mi sono avvicinato alla musica con le canzoni dei cartoni animati degli anni ’80 che erano dei veri e propri brani Pop di ottima fattura e li cantavo a menadito. Poi, nel ’93, con la prima cassetta regalatami da mio padre, è scattata la scintilla definitiva. Era una compilation con da un lato estratti del disco “La giostra della Memoria” di Enrico Ruggeri, dall’altro c’erano Marco Masini e Zucchero Fornaciari. Fu innamoramento puro, eccitazione e magia».
Quali ascolti hanno influenzato e accompagnato il tuo percorso?
«La musica la amo e la studio tutt’ora con la passione per il canto, pianoforte e chitarra. Ne mangio quotidianamente di tutti i generi ed etnie. Gli ascolti primari sono stati i cantautori italiani, in primis Dalla, Battisti, Baglioni, Gaber, De Andrè, Fossati, Vecchioni ma anche i più pop Masini, Raf, Tozzi. Per poi passare ai maestri del soul Stevie Wonder, Marvin Gaye, Otis Redding, Luther Vandross, Bill Withers ed a tutto l’R&B e l’Hip-Hop anni ’90, tra questi cito Kci & Jojo, R.Kelly, Brian McKnight, Michael McDonald. Ma tanta musica classica con una vera e propria passione per le opere del Maestro Giacomo Puccini, un genio avanti di almeno cento anni rispetto alla sua epoca».
In questo ultimo periodo stiamo vivendo una situazione inedita a livello mondiale, l’emergenza sanitaria nei confronti della diffusione del Covid-19 ha mutato, seppur momentaneamente, la nostra quotidianità. Tu, personalmente, come stai vivendo questa situazione così delicata e inedita?
«Dopo un primo momento di indiscutibile panico, avendo la Suono Libero Music, una struttura discografica aperta al pubblico nell’importante quartiere napoletano del Vomero, ho rimodulato molte delle mie attività lavorando da una postazione casalinga che, per fortuna, avevo già prevista nel mio setup. Naturalmente mi manca tantissimo il rapporto con il cliente artista ed i ragazzini che popolano il mio progetto-didattico intitolato SLMLAB. Spero che quanto prima si possa tornare a lavorare su produzioni inedite ed a veder fiorire da vicino i sogni dei giovani talenti che ho il piacere di dirigere».
Se dovessimo trovare un aspetto positivo da tutta questa situazione, in cosa lo individueresti?
«Il tempo ritrovato. Questo terribile virus, nella sua drammatica evidenza, ci sta restituendo la possibilità-impossibile altresì, di fermarci, seppur forzatamente, per rifiatare. C’è un tempo perfetto per fare silenzio, cantava Fossati, ed io penso che questo sia il tempo per riflettere sull’importanza di riprendere contatto con la nostra coscienza che stavamo smarrendo nella corsa insana all’esibizionismo di noi . Riprendiamo contatto con gli affetti, con le passioni, con le cose semplici, con un raggio di sole che riscalda il balcone della nostra casa e, mi raccomando, restiamo in casa tutti uniti per uscirne quanto prima e tornare alla piena libertà».
Stai lavorando a nuova musica? Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo prossimo futuro?
«E’ in lavorazione il mio nuovo album, che sarà intitolato ‘Inconsapevoli eroi’ e racconterà di storie civili di italiani che si sono distinti, inconsapevolmente, per aver dato alla società un messaggio forte. Persone che hanno operato in maniera sana e rappresentano, nel loro metroquadro, un’eccellenza di virtù. Ad ognuno di questi personaggi è legata una tematica. Pietro Bartolo ne è un fulgido esempio».
Per concludere, a chi si rivolge oggi la tua musica e a chi ti piacerebbe arrivare?
«Si rivolge, trasversalmente, ai ragazzi delle scuole, con le quali collaboro tenendo seminari sul concetto di legalità, e gli adulti che amano la musica d’autore e di impegno civile. Io spero possa esser un prodotto, ascoltabile e godibile anche dal punto di vista musicale perchè la musica è sì pensiero ma pur sempre intrattenimento e le persone devono star bene quando ne usufruiscono».
Nico Donvito
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