Fenomenologia della carriera del cantautore emiliano
Possiamo osservare attentamente il percorso musicale di Filippo Neviani, in arte Nek, per individuare le caratteristiche legate al suo stile. In uno spazio temporale di 27 anni, riempito con la pubblicazione di 14 album, sono presenti mille dettagli che cambiano, si evolvono, spariscono e ritornano tuttavia all’interno di fisiologici processi di trasformazione. In sostanza esiste una struttura di base che rimane identica, nonostante sopra di essa tutto si trasformi. È la voglia di raccontare l’amore e di essere pronti ad indagare i sentimenti per creare specchi di parole e melodie in cui migliaia di persone possano rivedersi.
Per chiarire, quindi, il concetto appena espresso, capita che a variare siano strutture di frasi e armonie musicali da più articolate a più immediate, da più ritmate a più dolci, ma la natura di uomo, prima che di cantante, attento ai lati emozionali dell’animo umano, quella no, non muta.
Partendo dalla premessa che l’artista emiliano ha sempre creato di base musica pop, alle volte vicina al rock, a tratti mischiandola con un’impronta decisamente elettronica, credo che la voglia di sperimentare sotto questo punto di vista sia il punto di partenza di chi voglia sorprendere se stesso per raggiungere gli altri. In certi momenti un Filippo ricco di suoni e contaminazioni continue, in altri proiettato verso una linea più pura, minimale, essenziale, nuda. Basti considerare la differenza sonora tra i due ultimi tour (‘Unici’ e ‘Prima di parlare’) rispetto all’esperienza del Quartet Experience, in cui tutti i brani furono suonati solo con i 3 strumenti principali: basso, batteria e chitarra, in modo da limare ogni eccesso e proporre l’essenza delle canzoni.
Per essere ancora più concreto faccio riferimento all’album “Unici”, ricco di elettronica, denso di suoni che si sfiorano, distante stilisticamente da “Il mio gioco preferito – Parte prima” uscito venerdì e per certi versi più essenziale (c’è un po’di elettronica, ma molto meno presente) e vicino a dischi del passato. Eppure a livello tematico la sensibilità messa a disposizione in entrambi i lavori è chiaro che sia proprio la stessa, dipinta ovviamente con colori diversi essendo differenti le esperienze con cui negli anni ci si confronta, ma pur sempre la stessa, riconoscibile, decisa a non snaturarsi ed in grado di cogliere certe sfumature da mettere poi in musica.
Con questa disamina voglio affermare che, lasciando perdere i suoni, l’amore di cui si parla in “In braccio” (2016) non è lontano da quello emerso in “Cosa ci ha fatto l’amore” (2019) ed è della stessa natura di quello che si percepisce tra le note di “Abbracciami” (2005) o di “Dentro l’anima” (2013) solo per fare alcuni esempi. E pensateci, la sofferenza che si prova quando l’amore sembra mancare è così diversa in una “Parliamo al singolare” (2002) rispetto ad una “La metà di niente” (2013) o ad una “Però vorrei ci fosse amore” (1995) o “Io ricomincerei” (2015)?
Io non credo, e anzi sono convinto che il viaggio musicale di Nek sia proprio contraddistinto da sperimentazione stilistica e continuità tematica; ed è proprio quest’ultima, la coerenza emozionale, a dimostrare l’autenticità di una musica che, per quanto possa cambiare strutturalmente, porterà sempre con sé proprio quel nucleo di essenza, comune punto di incontro per chi crea quella musica, e chi la riceve.
L’attenzione ai sentimenti, in conclusione, particolarmente collegata al racconto delle tante forme d’amore che esistono,trovo che sia una costante nella musica di Filippo; un suo tratto caratteristico che si manifesta ogni volta e lo rende riconoscibile in quella cura continua verso i dettagli emotivi descritti dalla sua musica,dal 1992 al mio gioco preferito.
Giuseppe Currado
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