sabato, Aprile 20, 2024

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Niccolò Fabi: “La musica può salvare la vita di ognuno di noi” – INTERVISTA

A tu per tu con il cantautore romano, in uscita con il suo undicesimo album “Tradizione e tradimento

La sensibilità di un artista è direttamente proporzionale al suo talento, questo il pensiero emerso a seguito della piacevole chiacchierata realizzata con Niccolò Fabi in occasione dell’uscita del suo nuovo disco, intitolato “Tradizione e tradimento”. Anticipato dal coinvolgente singolo “Io sono l’altro” (qui la nostra recensione), il progetto arriva a tre anni di distanza dal successo ottenuto con il precedente Una somma di piccole cose, che ha ottenuto la Targa Tenco come miglior album del 2016. Questa volta, il cantautore spariglia le carte e realizza un lavoro ricercato, a tratti spiazzante ma equilibrato, proprio come suggerisce il titolo stesso, conservando al proprio interno i valori e le caratteristiche tipiche sia della memoria passata che della prospettiva futura.

Ciao Niccolò, benvenuto su RecensiamoMusica. “Tradizione e tradimento” è il tuo nuovo disco, un lavoro che segna un po’ una svolta nel tuo percorso: quali certezze pensi di aver lasciato alle spalle e quali rischi senti di aver corso? 

«Il disco ruota attorno a tutto ciò, non è affatto facile, una risposta secca a questa domanda non te la so dire, ho fatto un album per cercare di raccontare questa problematica, cioè quanto sia giusto conservare del proprio percorso, nel pieno rispetto di quello che si è costruito, e quanto allo stesso tempo sia giusto provare a tradire il proprio passato, ad osare e mettere il naso in luoghi meno consueti, meno battuti, meno confortevoli. Senza cadere in un eccesso di conservatorismo, dell’ennesima ripetizione di se stessi, soprattutto se la propria identità è stata già gratificata, sarebbe stata la cosa più semplice pensare: “piaccio così perché devo cambiare?”. Con il mio precedente disco ho avuto la netta sensazione di aver raggiunto una certa gratificazione e un certo godimento, tendenzialmente poteva anche starci un voler proseguire nella stessa direzione, continuare su quel tipo di certezza».

Anche perchè viviamo in un’epoca di zone di comfort, dove ognuno si rifugia e ci costruisce una villa con piscina…

«Esatto, credo si abbia una visione un po’ distorta del valore della comodità, ma è indubbio che nel mondo dell’arte, che dovrebbe essere perennemente uno sguardo attento e dinamico, la comodità non è mai stata particolarmente stimolante a livello creativo. Sentivo che una posizione confortevole non mi avrebbe fatto fare nessun passo avanti, per cui sono andato alla ricerca di altro. Attenzione, non è detto che quello che trovi sia meglio di ciò che avevi prima, questo è un grande classico, il nuovo non è sempre categoria di qualità, siamo attorniati da una sloganistica che parla di rottamazione, come se il “nuovo che avanza” fosse necessariamente un requisito. Diciamo che l’interno album si sviluppa all’interno di questo calderone».

Questo è un disco che ha una doppia anima, possiede sia una forte matrice cantautorale, ma anche un’anima musicale, perché lascia molto spazio alla parte strumentale, come ad esempio accade con “Scotta”. Come sei riuscito a coniugare questi due aspetti e a calibrarli nel modo giusto?

«E’ la mia ossessione, la mia ma anche la nostra perché a scrivere il disco mi hanno aiutato Roberto Angeli e Pier Cortese, due amici e cantautori che lavorano nella mia stessa direzione, esaltando la bellezza della nostra lingua, uno strumento molto importante. Allo stesso tempo, abbiamo sentito la necessità di non ripetere alcuni atteggiamenti produttivi che sono inevitabilmente passati, perché il limite del cantautorato classico italiano è rappresentato dall’assenza della parte strumentale e del sogno, lì ritrovo una parte fondamentale della musica, in cui posso smettere di pensare e lasciarmi andare. Come si possano mettere insieme questo spirito e la consapevolezza della parola è stato il vero lavoro, una sfida che mi sono messo sulle spalle e ci provo in tutte le maniere, se ci ritrovi un equilibrio è perché è stato fortemente cercato».

“Io sono l’altro” è il brano che ha segnato il tuo ritorno e francamente lo trovo uno dei pezzi più belli degli ultimi anni. In quest’epoca così piena di giudizio e a volte di pregiudizio, quanto credi sia importante indossare veramente i panni dell’altro, per scoprire punti in contatto e comprendere fino in fondo la diversità al giorno d’oggi?

«E’ evidentemente fondamentale, purtroppo viviamo in un’epoca che ci ha confuso tantissimo le idee su diverse tematiche, perché un certo tipo di propaganda ha scombinato alcuni principi che hanno a che fare con l’umanità e la convivenza. Tutto questo fa sì che un determinato tema possa sembrare “buonistico”, un termine che francamente detesto perché non significa nulla, che viene utilizzato a iosa in maniera impropria per definire cosa? Un atteggiamento che si definisce come ipocritamente buono? Questo è un grande pregiudizio, pensare che qualcuno possa richiamare dei valori di umanità senza malizia, senza un doppio fine. Per me questa è una sconfitta, vuol dire che davvero abbiamo perso la fiducia verso gli altri.

Che ci sia in giro del buonismo è indubbio, perché ormai la comunicazione prevale sul comunicato, io non volevo cadere in quel tipo di retorica, dell’altro inteso come l’extracomunitario che arriva sul barcone dalle coste africane, perché questo tipo di accettazione deriva da una problematica ancora più lontana, ovvero rendersi conto dell’importanza che l’altro ha nella nostra vita, in senso positivo e in senso negativo, perché l’altro può essere chi ti salva la vita o chi te la toglie, come al tempo stesso anche tu puoi salvare o togliere la vita a qualcun altro, perché alla fine i ruoli girano. Sulla base di questo, arriviamo alla comprensione e alla convivenza con gli altri, anche perché tecnicamente da quando è nato il pianeta stiamo aumentando, quindi non è un problema che puoi eludere in qualche modo, ci dobbiamo tutti quanti allenare perché ci si salva solamente insieme».

Una curiosità sul Festival di Sanremo, l’Ariston è stato uno dei primi palchi importanti che hai calcato, hai preso parte alla gara nel 1997 all’inizio della tua carriera con “Capelli” e l’anno successivo con “Lasciarsi un giorno a Roma”. Da allora non ci sei più tornato, se non in veste d’autore nel 2011 per Serena Abrami. Ecco, mi interessava chiederti il tuo rapporto con questa kermesse e se, prima o poi, ti piacerebbe tornarci…

«Sai, quello di Sanremo è un palcoscenico dove io non credo di avere la possibilità di mettere in luce le mie qualità, perché mi reputo più un autore che un performer. A livello comunicativo nella gara canora vale più l’immediatezza del linguaggio, piuttosto che un certo tipo di contenuti. Personalmente ho realizzato che più mi sono allontanato dai meccanismi televisivi e più sono stato bene, anche se al Festival ci sono stato all’inizio della carriera, con una grandissima inesperienza, non so se adesso potrei godermela o meno. Non è un fatto per me ideologico, è un discorso legato strettamente alla mia serenità, perché Sanremo è il top della spettacolarizzazione, se si trattasse soltanto di andare lì e cantare una canzone sarebbe diverso, dietro c’è tutto un meccanismo che mi trasmette più tensione che pace. Crescere vuol dire cercare con più sicurezza di andare verso la pace, intesa come serenità, e la musica in televisione non me la dà quasi mai».

Per concludere, qual è l’insegnamento più importante che senti di aver appreso dalla musica in questi anni di carriera?

«C’è una canzone del mio amico Max Gazzè che si chiama “Una musica può fare”, ecco… la musica può fare veramente tante cose, anche salvarti sull’orlo del precipizio. Indubbiamente è questo, qualcosa che continua ad essere per me sempre sconvolgente, lo dico anche come ascoltatore. Ti faccio un esempio: qualche anno fa siamo andati a fare un tour europeo e abbiamo percorso il Tunnel della Manica. Il furgone entra dentro un vero e proprio vagone, per evitare che ci siano dei rischi e che le macchine vadano a fuoco, ogni due vetture chiudono delle paratie, delle saracinesche. Ci siamo ritrovati tipo in scatola, quindi è subentrata un po’ di ansia, allora ci siamo messi ad ascoltare il “Köln Concert” di Keith Jarrett, il pezzo di musica più straordinario che io possa pensare e che dura venticinque minuti, proprio come il tragitto sotterraneo. Abbiamo chiuso gli occhi e ci siamo ritrovati in Inghilterra senza neanche accorgercene, quella musica meravigliosa ci ha letteralmente salvato. Suppongo che in modo inverso, possa essere anche capitato che alcune canzoni che ho fatto io abbiano avuto un ruolo analogo. Quando succede questo ti rendi conto di come la musica sia una cosa davvero importantissima nella vita di tutti noi».

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Nico Donvito

Appassionato di scrittura, consumatore seriale di musica italiana e spettatore interessato di qualsiasi forma di intrattenimento. Innamorato della vita e della propria città (Milano), ma al tempo stesso viaggiatore incallito e fantasista per vocazione.
Nico Donvito
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