Pacifico e i Metameccanici raccontano lo spettacolo “Turbo-lento” – INTERVISTA
A tu per tu con Pacifico e i Metameccanici, che si raccontano in occasione dello spettacolo “Turbo-Lento – Il turbolento viaggio della PV544”. La nostra intervista
Una macchina che suona, pensa, si ribella alla competizione e decide di andare piano. È questo il cuore di “Turbo-Lento – Il turbolento viaggio della PV544”, l’operetta da camera elettroacustica in due tempi firmata dai Metameccanici (i fratelli Alessandro e Angelo Trabace insieme a Sebastiano De Gennaro) con la guida di un narratore-pilota d’eccezione, Pacifico, di scena al Volvo Studio Milano.
Un progetto visionario e surreale, in cui musica, teatro e narrazione si intrecciano attorno a un’auto impossibile, la Polisynth PV544, costruita con strumenti musicali: sintetizzatore come plancia, piatto di batteria al posto del volante, vibrafono e tastiera come fiancate, tamburi come ruote e una drum-machine a fare da cofano.
In questo universo sospeso tra gioco e poesia, la macchina diventa personaggio: dialoga con i suoi inventori, prende coscienza di sé durante il primo viaggio, entra in crisi e rifiuta l’idea di essere performante e competitiva. Di questo viaggio ci hanno parlato Pacifico e i Metameccanici in questa intervista.
Pacifico e i Metameccanici raccontano lo spettacolo “Turbo-lento”, l’intervista
“Turbo-lento” è il titolo dello spettacolo che vi vede insieme sul palco del Volvo Studio Milano. Come vi siete conosciuti e com’è nata l’idea di questa operetta da camera elettroacustica in due tempi?
Pacifico: «Con Sebastiano ci conosciamo da tanto, da un bel po’ di tournée. Siamo insonati insieme, e quando c’è l’occasione di fare qualcosa di meno statico è sempre un riferimento utile, perché lui è un esploratore, un montatore di strumenti: la canzone subito prende una direzione. Con Alessandro ci sfioriamo da un po’ e finalmente mi hanno invitato in questo progetto. Loro lo descriveranno meglio…».
Metameccanici: «Eravamo in viaggio in un furgone con Francesco Bianconi, fermi in coda, e ci siamo immaginati questa macchina. È nato tutto lì. Poi l’abbiamo sviluppata: un gioco diventato sempre più serio. Inventavamo musiche legate alla storia immaginaria di una macchina inventata. In furgone si parla di sintetizzatori vintage e, sparando cavolate, è uscito fuori addirittura un sintetizzatore Fiat! Da lì è partito tutto: la storia, le musiche e poi un disco che esiste già, anche se non è uscito perché è troppo commerciale… se lo facciamo uscire rischiamo di entrare in classifica!».
Al centro della scena c’è un veicolo unico nel suo genere, la Polisynth PV544, assemblata con strumenti musicali. Com’è nata e come l’avete sviluppata?
Metameccanici: «Abbiamo iniziato a immaginare come potesse funzionare dal vivo un disco costruito in modo disorganizzato e pieno di strumenti particolari. Dopo due anni di scrittura e improvvisazione è nata l’idea di suonare in cerchio, attorno a un oggetto che rappresentasse la nostra narrazione: l’automobile. Così abbiamo pensato alle ruote come tamburi verticali, alle fiancate musicali… È stato un gioco. Ci ha ispirato molto Bruno Munari con le sue “macchine inutili”. Anche la nostra è una macchina inutile, ma durante il viaggio scopre di avere una coscienza e non vuole andare da nessuna parte né essere competitiva».
Gino, cosa ti ha colpito di questa idea e di questo spettacolo?
Pacifico: «Accetto sempre quando c’è l’occasione di uscire dal foglio, di schiacciarsi da qualche parte, fare qualcosa che parte come un mezzo passo falso. Mi ha colpito che le musiche erano già tanto descrittive. Loro hanno scritto la storia, io l’ho riscritta per riportarla alla mia voce, perché non essendo un attore dovevo interpretarla come parlo io. Poi l’abbiamo messa in rima per differenziarla. Alla fine tutto è andato al suo posto, anche se insieme ci siamo visti solo due volte per mangiare!»
Vi siete ispirati a qualche tradizione teatrale, musicale o narrativa particolare?
Metameccanici: «Con Gino il mondo testuale ha preso una forma meravigliosa. Noi nelle musiche partivamo da poche parole, qui invece siamo più vicini al teatro. Le nostre ispirazioni? Sicuramente il cinema di Jacques Tati, soprattutto Trafic, che è quasi senza parole. Poi il mondo della graphic novel, la sua sintesi. E anche Monicelli e l’idea un po’ brancaleonesca dell’avventura. Siamo lettori di poesia, e alla fine dentro c’è persino un po’ di Dante. Tutti questi riferimenti erano già nei materiali: ognuno ha aggiunto il colore giusto alla stessa tavolozza.»
Gino, c’è un passaggio del testo che senti particolarmente tuo?
Pacifico: «Tutta l’avventura di questi personaggi mi è molto vicina: me li immagino come “la Linea”, cadono dal settimo piano e si rialzano. C’è un passaggio finale che parla dell’infanzia, o meglio dei bambini. Prima li detestavo, adesso ho un figlio e tutto è cambiato. Ma non è solo quello: è ciò che dice Rodari alla fine dello spettacolo. A me interessano i bambini dentro gli scatoloni dei sessantenni e dei settantenni. Nessuno arriva ai quaranta dicendo: “Io ho davvero quest’età?”. Riconosco quel ragazzino dentro di me, e quel punto del testo mi commuove sempre».
Dopo il primo appuntamento del 25 novembre, replicherete il 3, il 9 e il 16 dicembre. Che evoluzione immaginate per questo spettacolo? Vorreste portarlo avanti oltre queste date?
Metameccanici: «Secondo me questa macchina cammina e se ne va in giro per Milano… magari senza che riusciamo a controllarla più! Sarebbe bello. E c’è anche qualcuno che vorrebbe comprarla! Scherzi a parte: ci piacerebbe che continuasse a vivere».
Per concludere: cosa vorreste che le persone esclamassero uscendo dal Volvo Studio dopo aver visto “Turbo-lento”?
Metameccanici: «Che abbiano fatto emergere il loro bambino interiore. Vorremmo che per un’ora si staccassero dalla realtà e si immergessero in un universo di immaginazione, fantasia, esplorazione… inutilità. Le cose inutili sono vitali: sono spesso le più belle che costruiamo. Una macchina fatta di oggetti che non appartengono a un’auto normale è proprio questo».
Pacifico: «Alla prima replica ci hanno detto che c’era un senso di incanto: non fuori misura, ma reale. Qui il traffico resta fuori, l’anagrafe resta fuori, le preoccupazioni pure. Per un’ora le persone si sentono accolte, perché il cinquantenne, il sessantenne, il quarantenne possono tornare bambini senza sentirsi ridicoli. Questo ci fa felici».