A tu per tu con la band fiorentina, in uscita con il singolo “Il faro”, nuovo estratto dall’album “Fernet”
Ciao ragazzi, partiamo dal vostro nuovo singolo “Il faro”, cosa rappresenta per voi?
«”Il Faro” racconta il momento in cui il protagonista esasperato dalla solitudine che vive a New York sale sul Faro e guarda il mare in direzione di casa sua. Il brano parla della solitudine e del sentimento di estraneità e spaesamento che si puó vivere quando si è in un paese lontano dalla propria casa. Un sentimento che talvolta può portare anche alla perdita della speranza e al panico, quando ti senti la terra sfuggire sotto i piedi o travolgere dalle onde dell’oceano come in questa canzone».
Cosa vi ha ispirato questa storia ancora oggi così attuale?
«La storia e’ solo un momento di un racconto piu’ ampio, e’ il momento in cui il protagonista si lascia andare alla nostalgia del ritorno. Credo che questa nostalgia di casa sia vissuta ancora oggi dalle persone che sono costrette a partire».
Dal punto di vista musicale, invece, quali sonorità avete voluto abbracciare per esprimere al meglio il significato del testo?
«Parlando del Faro l’inizio e’ molto sospeso affidato a poche note di pianoforte, mentre nel corso della canzone emerge la rabbia del protagonista in uno strumentale dove fa il suo ingresso anche la chitarra elettrica. Nel disco sono stati impiegati quasi esclusivamente strumenti acustici, le chitarre, il piano e il contrabbasso, mentre le linee melodiche sono state affidate a violino, clarinetto e chitarra dobro».
Cosa avere voluto trasmettere attraverso le immagini del videoclip diretto da Linda Kelvink?
«Nel videoclip diretto da Linda si vede bene la contrapposizione fra un uomo solo e una grande metropoli che sappiamo essere New York. Il paesaggio della megalopoli con i suoi grattacieli si fa sempre piu’ opprimente per il protagonista e questa tensione emotiva sfocia in un’ondata che invade la citta’, come un maremoto».
Facciamo un passo indietro nel tempo, come vi siete conosciuti e quando avete deciso di mettere in piedi la vostra band?
«Io (Tommaso Massimo) e Marco Gallenga eravamo compagni di banco alle superiori e siamo diventati fin da subito molto amici. Si puo’ dire che i Petralana siano nati in nuce tra i banchi di scuola. L’idea di formare una band e’ arrivata molto dopo intorno ai ventidue anni. Abbiamo cominciato proponendo un repertorio di musica d’autore chitarra e voce e violino. Con l’aggiunta di Richard Cocciarelli percussioni e batteria sono cominciati i concerti e abbiamo portato in giro la musica che piu’ ci piaceva e che continua a piacerci, nelle piu’ svariate situazioni. Poi intorno al 2010 e’ arrivata la voglia di proporre musica nostra e ci siamo messi all’opera su musica e parole originali».
Quali ascolti hanno influenzato il vostro percorso?
«Oltre ai cantautori italiani di riferimento, ci e’ sempre piaciuta molto la musica rock, fino al punk e alle sue declinazioni. Inoltre siamo molto amanti della musica folk americana da Dylan a Neil Young e credo che tutti questi ascolti siano rintracciabili nei nostri dischi e nei nostri live».
Vi sentite rappresentati dall’attuale scenario discografico italiano?
«Lo scenario discografico italiano è abbastanza desolante perchè non mette davanti i contenuti ma solo la forma. Ci sono fortunatamente delle eccezioni. La Suburban Sky che ci ha dato la possibilità di uscire con questo disco è un esempio virtuoso. Ci ha dato la possibilità di lavorare in studio per più di un anno coinvolgendo oltre alla band un collettivo di musicisti di altissimo livello. Ci ha chiesto in cambio solo la professionalità e di avere delle idee creative autentiche, un’urgenza di comunicare attraverso la musica. Siamo dei privilegiati».
Tornando a voi, “Il faro” è estratto da “Fernet”, un concept album che prende spunto dalle opere di Cesare Pavese e Beppe Fenoglio, cosa vi ha colpisce particolarmente di questi due artisti?
«Di Fenoglio mi colpisce ancora oggi la precisione del linguaggio, il suo mettere in fila i fatti in modo asciutto e mai retorico, di Pavese in una parola direi la poesia che si trova anche nelle sue opere narrative. Ci siamo ispirati a questi due grandi scrittori per affondare le radici in un contesto preindustriale, il mondo contadino oggi scomparso e in questo contesto inventare una storia».
Buoni propositi e sogni nel cassetto?
«Ci piacerebbe portare in giro “Fernet” e farlo conoscere al pubblico e ci auguriamo che percorrendo questa strada venga fuori una bella idea per un nuovo progetto».
Per concludere, quale messaggio vi piacerebbe trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la vostra musica?
«Ci piacerebbe far emozionare il nostro pubblico raccontando delle storie che fanno parte del loro passato e allo stesso tempo farle riflettere sul presente».
Nico Donvito
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