A tu per tu con il misterioso cantautore mascherato, fuori con il suo primo EP “To bit or not to bit”
Continua il discorso musicale di Pianista Indie, dopo averlo incontrato la scorsa estate in occasione dell’uscita del precedente singolo “Riviera”, lo ritroviamo in una piovosa serata autunnale per parlare di “To bit or not to bit”, il suo EP d’esordio contenente quattro canzoni: “Lucio Dalla” con i Legno, “Vita di merda”, “Caravaggio” e “Maria Callas”. Scopriamo tutti i dettagli insieme al diretto interessato.
Ciao Pianista, bentrovato. “To bit or not to bit” è il titolo del tuo nuovo EP che contiene quattro brani inediti, partiamo col parlare di “Lucio Dalla”, primo singolo realizzato in collaborazione con i Legno, com’è nato questo pezzo?
«La collaborazione con i Legno è nata da una corrispondenza in DM su Instagram dopo il concertone del Primo Maggio, ho inviato loro un messaggio in cui sottolineavo il mio desiderio di vederli su quel palco, da lì è arrivata la proposta di provarci insieme e così abbiamo iniziato a lavorarci. Per mesi ci siamo scambiati note audio su WhatsApp, una genesi molto divertente perché abbiamo impiegato cinque mesi per scrivere una canzone a distanza. In più, io porto una maschera, loro hanno una scatola di legno in testa, non ci siamo mai visti negli occhi, mai conosciuti e mai parlati, ma grazie alla tecnologia siamo stati in grado di comporre insieme questo pezzo. C’è stata molta sintonia, ci siamo riusciti a capire, il risultato finale è davvero molto carino».
Nonostante il titolo, il brano non parla di Lucio Dalla, ma prende spunto dal suo esempio, passando anche per “Albachiara” di Vasco, per analizzare quella che è la situazione attuale, rispetto anche a qualche decennio fa. Cosa ne è venuto fuori da questa serie di parallelismi?
«Ci siamo posti delle domande, quello che ci chiediamo in questa canzone è: se Lucio Dalla scrivesse oggi un brano, di cosa parlerebbe? Se Vasco Rossi scrivesse oggi “Albachiara”, dove la sentiremmo? Probabilmente la troveremmo nella playlist Indie Italia di Spotify. Se Leonardo Da Vinci oggi facesse l’inventore, dove lavorerebbe? La risposta è che, molto probabilmente, lo assumerebbero alla Apple. Questo è stato il gioco, ci siamo posti delle domande, paragonando l’epoca in cui viviamo ai grandi personaggi della storia dell’umanità e della cultura nazional-popolare italiana».
Veniamo alla seconda traccia “Vita di merda”, che è quella che mi ha colpito di più. Cosa rappresenta per te?
«Una canzone come tante, quando l’altro giorno l’abbiamo suonata allo Zog di Milano l’abbiamo bissata varie volte, perché la gente era molto coinvolta. Sarà un po’ il titolo, un po’ l’argomento perché, in un modo o nell’altro, viviamo tutti quanti la nostra misera vita di merda. Il ritmo scanzonato porta inevitabilmente a ballare e ad applaudire, in più è suonata con strumenti acustici, anche se nella versione del disco è presente un pizzico di elettronica, è stata prodotta in un modo molto originale».
Poi c’è “Caravaggio”, altro bel pezzo-manifesto del disagio, qui dici “non voglio rimanere sobrio, l’ho appena detto sono già brillo”. Cosa racconta esattamente?
«Lo scorso anno sono andato con mia sorella a vedere una mostra di Caravaggio, quella notte mi è uscito di getto il testo, l’ho appuntato sul telefonino e poi l’ho musicato successivamente. E’ una canzone intensa e nello stesso tempo disperata, ma in maniera ironica e grottesca, soprattutto in alcuni tratti. Anche qui, credo che tanti si possano rivedere in quei momenti di crisi in cui cerchi conforto nel fondo di un bicchiere, piuttosto che ragionare in modo lucido e razionale per cercare di uscir fuori dai guai».
Infine c’è Maria Callas, una canzone d’amore, un amore finito, dove dici: “forse eravamo giusti nel modo sbagliato”. Com’è nato quest’ultimo brano?
«Anche questo al pianoforte, alle nove del mattino, me lo ricordo ancora perché ci sono momenti in cui ti siedi davanti ai tasti bianchi e neri per suonare canzoni di qualcun altro, in questo caso ricordo che avevo in testa di fare dei pezzi di Elton John. Poi mi è uscito un accordo particolare e da lì ho iniziato a comporre “Maria Callas”, un processo abbastanza sofferto perché non volevo scriverla, ma usciva da sé. Quando si compie quel momento di magia non puoi rimandare l’appuntamento con l’ispirazione, devi prendere tutto il buono da quella situazione, cogliere e portare a termine fino alla fine. E’ una canzone nella quale mi rivedo tantissimo, che mi piace proporre dal vivo, mi diverto nel cantarla».
Questi quattro brani segnano l’inizio di una seconda fase del tuo percorso, dopo i precedenti “Urologia”, “Zara”, “Fabio” e “Riviera”. Noti delle differenze tra il primo e questo tuo attuale secondo tempo?
«Assolutamente sì, Pianista Indie nasce da solo, nel suo appartamento con un pianoforte e due microfoni, con i quali ho registrato i primi quattro singoli, tra l’altro tutti nello stesso giorno d’estate. Non essendo un bravo fonico, ho posizionato questi microfoni panoramici che, inevitabilmente, hanno ripreso anche il suono delle cicale situate in giardino. Dopodichè ho incontrato una casa discografica, dei collaboratori, le cose stanno evolvendo e quando hai più gente intorno è naturale e sintomatico portare a perfezionare le proprie produzioni, di conseguenza non ci sono più solo brani piano e voce, gli arrangiamenti sono migliorati, ci siamo spostati verso un tipo di musica che non è più soltanto unplugged».
Una domanda goliardica, ma Pianista Indie da bambino da chi si mascherava a carnevale?
«E vabbè (ride, ndr), sicuramente c’è stato anche uno Zorro, ma una delle maschere che ricordo con più gioia è quella di Mazinga, perché ho vissuto la fase dei robot, pensa che dovrei avercela ancora da qualche parte nei vari sgabuzzini. Poi, se ricordo bene, anche da clown…».
Scusa la domanda, ma era una mia curiosità. Vedi, il bello della maschera è che se ti fanno delle domande stupide puoi fare pure delle facce perplesse, tanto nessuno se ne accorge. Parlando seriamente, invece, mi colpisce molto quello che sostieni a proposito di questo argomento, ovvero che la maschera in genere serve per nascondere e celare qualcosa, mentre nel tuo caso si tratta dell’esatto contrario perché và ad esaltare qualcosa. Ci spieghi meglio questo concetto?
«Mi auguro vivamente che sia così, quello che sto cercando di trasmettere è proprio questo, perché la mia maschera non serve a nascondere un volto, bensì a mettere in primo piano la musica e le canzoni. Non è importante chi dice qualcosa, chi canta, chi esprime dei versi, ma sono importanti le parole stesse, quindi il contenuto prima del contenitore. Questo è il messaggio di Pianista Indie, quello che stiamo cercando di fare da un po’ di tempo. Noto che ci stiamo riuscendo, me ne accorgo soprattutto dopo i primi live, mi rendo conto che il pubblico si allarga e che le persone apprezzano le canzoni, quindi va bene così. Viviamo in un’epoca in cui la gente acquista i like e i follower sui social, di cosa stiamo parlando? Io provengo da un momento storico in cui se eri bravo a fare qualcosa non avevi bisogno di dirlo, perchè erano gli altri a riconoscertelo. Oggi si ostenta tutto a tutti i costi, trasmettendolo pubblicamente a più pubblico possibile. Preferisco coprire il volto e concentrarmi su altro, la maschera è un veicolo per far arrivare le canzoni agli altri».
Per concludere, hai riflettuto sui prossimi passi? Nel senso, prima che diventi un oggetto ingombrante, hai pensato al futuro e al destino della maschera?
«Tecnicamente è faticoso suonare ed esibirmi dal vivo con la maschera, è fastidioso (ride, ndr). Comunque sì, diciamo che stiamo pensando in futuro di toglierla, ma credo non sia questo il passaggio fondamentale. La maschera potrà cessare di esistere quando la forza delle canzoni avrà superato il punto di non ritorno, sperando che questo accada naturalmente. A quel punto non ci sarebbe più nemmeno un interesse, a cantarle sarebbe un volto come un altro. Mettiamola così, il problema non è avere o non avere la maschera, prima o poi potrei toglierla, di conseguenza esibirmi sul palco sarà sicuramente ancora più bello».
Nico Donvito
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