A tu per tu con il duo composto milanese, in uscita con l’omonimo album d’esordio anticipato dal singolo “Toy”
Dopo aver militato nella rock band dei Nomoredolls, Cecilia Miradoli e Max Tarenzi hanno dato vita ad un nuovo duo: i Pinhdar, proprio come il titolo scelto per il loro disco d’esordio, anticipato dal singolo “Toy”. Sonorità che prendono spunto dalla musica che amano, questa è una caratteristica fondamentale e che si percepisce sin dal primo ascolto. Tornare a concentrarsi in quello in cui si crede è la vera salvezza per l’attuale discografia, sempre più intenta a riciclarsi inseguendo le mode, mentre solo i veri musicisti possiedono ancora il coraggio di rischiare e con coraggio portare avanti i propri ideali. Scopriamo la loro storia.
Ciao Cecilia, ciao Max, benvenuti su RecensiamoMusica. Partiamo da voi e dal vostro progetto, chi sono i Pinhdar?
«Sono Cecilia Miradoli voce (io) e Max Tarenzi chitarre e produzione dei PINHDAR, due musicisti milanesi che si muovono nella scena musicale italiana ma anche internazionale da anni, prima come membri della rock band Nomoredolls e poi come fondatori e organizzatori del festival indipendente A Night like This. Questo nuovo progetto è un po’ la sintesi di tanti anni di musica fatta insieme ma soprattutto della profonda amicizia che ci lega e che matura da tutte le esperienze vissute».
Come vi siete conosciuti e quando avete deciso di formare un duo musicale?
«Ci siamo conosciuti nei primi anni 2000 e prima di questo progetto abbiamo fondato una band (i Nomoredolls) che ha registrato tre album e suonato centinaia di concerti in tutto il mondo fino al 2011 anno in cui si e’ sciolta.
Da allora e per 7 anni Max ed io abbiamo continuato a scrivere e registrare brani ma non ne è’ nato nulla che ci convincesse.Forse perché non sentivamo che fosse arrivato il momento di tornare in scena , o forse perché abbiamo organizzato un festival importante nel panorama della scena indipendente italiana (A Night Like This Festival) che ci ha assorbito tutte le energie. Il festival ha però avuto il merito di farci ascoltare e conoscere generi e proposte nuove , di farci apprezzare stili e tendenze che si sono fusi con tutte le esperienze fatte in passato in modo da farci maturare molto musicalmente».
“Toy” è il titolo del vostro ultimo singolo, cosa racconta?
«È’ la storia di un’ossessione. Una storia finisce ma uno dei due non riesce ad accettare di aver perso il suo “giocattolo” e comincia una sorta di stalking, che sfocia in un delitto. Tutto questo non è’ esplicito, si intuisce tra le righe ma può adattarsi ad ogni forma di violenza anche psicologica, soprattutto sulle donne».
Cosa avete voluto trasmettere attraverso le immagini del videoclip diretto da Alessandro Nassiri Tabibzadeh e Samuele Romano?
«Nel video la storia che raccontiamo nella canzone assume un carattere più simbolico e universale mette l’accento sulla mancanza di empatia che regna nella nostra società e che ci fa vedere “l’altro” come un oggetto a maggior ragione se è una donna. Questo può portare a uno scollamento dalla realtà che a volte sfocia in violenza. Sappiamo quanto la violenza sulle donne, anche a volte solo psicologica (lo stalking ne è un esempio), rappresenti un problema dei nostri tempi».
Il brano fa parte del vostro omonimo album d’esordio, quali tematiche e sonorità avete voluto abbracciare?
«Nei testi, a parte “Toy”, ci sono due opposte situazioni: la solitudine (come in “Amy e Breaking”) ma trattata non necessariamente in modo triste, e del suo contrario, cioè di empatia e amicizia (come in “Overloved” e “Cosmic tune”)».
Dal punto di vista musicale, invece, quali sonorità avete voluto abbracciare per esprimere al meglio il significato di un messaggio così importante?
«Musicalmente parlando, “Toy” rappresenta il nostro ritorno alle origini, alla musica che amiamo da sempre ovvero il synth rock e la new wave dei primissimi anni ’80. L’album è un mix di questi ingredienti mischiati con elementi del trip hop e psych rock del decennio successivo. Sono due anime che secondo noi convivono perfettamente e che comunque cerchiamo di esprimere nel modo più personale possibile. Un produttore inglese con cui abbiamo parlato di recente ci ha detto che siamo “trippy”».
Chi ha collaborato con voi in questo progetto?
«Il disco è registrato interamente da noi e prodotto da Max nel nostro studio di Milano, per i mix ci siamo affidati a Chris Brown, fonico londinese con più di 20 anni di esperienza, metà dei quali maturati agli Abbey Road Studios, e che nella sua lunga lista di collaborazioni ha gruppi come Radiohead e Muse. Due registi per il video: Alessandro Nassiri Tabibzadeh e Samuele Romano e un’attrice Francesca Lolli. Samuele Romano con una sorta di “collettivo” di giovani registi e allievi sta anche preparando i visual dei nostri prossimi live. Una regia diversa per brano».
A cosa si deve la scelta di scrivere e cantare in lingua inglese?
«Ho sempre scritto e cantato in inglese credo si sposi meglio con il tipo di sonorità che abbiamo e poi per me che parto dalla musica e poi cerco le parole (che credo sia il contrario del cantautore) l’immediatezza dell’inglese, oltre che alla sua “ritmicità”, è fondamentale».
Musicalmente parlando pensate di aver raggiunto una vostra identità artistica o più semplicemente ne siete ancora alla ricerca?
«Credo che siamo molto maturati ma penso anche che la ricerca e l’evoluzione non smettano mai anche perché il mondo intorno continua a cambiare e descriverlo richiede sempre un nuovo linguaggio artistico».
Per concludere, in che direzione andrà la vostra musica?
«Come diciamo in uno dei brani “we must go on we rumble to the stars”. Il viaggio è lungo continueremo a sperimentare e cercare di trasmettere emozioni con passione e speriamo che arrivi a chi ci ascolta».
Nico Donvito
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