Plant: “Adesso non mi ghettizzo in un solo genere” – INTERVISTA

Plant

A tu per tu con Plant che si racconta in occasione dell’uscita del disco “Maldivita”, che segna il suo esordio da solista. La nostra intervista al giovane artista

Con “Maldivita”, il suo primo album da solista, Plant firma un esordio potente, personale e senza filtri. Disponibile dal 3 ottobre per M.A.S.T./Believe, il disco è un viaggio tra luci spente e verità scomode, tra disagio generazionale e voglia di riscatto. Anticipato dai singoli “Piccolo me”, “Come l’aria” e “Messaggio d’addio” con Sally Cruz, “Maldivita” affonda lo sguardo in una società iperconnessa ma sempre più distante, in cui persino il dolore deve diventare estetico per poter essere riconosciuto.

Attraverso testi che raccontano senza mezzi termini depressione, solitudine, aspettative e disillusione, Plant costruisce un mondo sonoro variegato che spazia tra urban, punk e pop, unendo tutte le anime che lo hanno formato. Abbiamo incontrato l’artista pugliese, che il prossimo 28 ottobre presenterà il progetto dal vivo ai Magazzini Generali di Milano, per un’intervista in cui ha raccontato il processo creativo, le fragilità, le collaborazioni e la necessità di mettersi a nudo in musica.

Plant presenta il suo primo disco solista “Maldivita”, l’intervista

“Maldivita” è il titolo del progetto discografico che segna il tuo esordio da solista. Prima di entrare nel merito e nei dettagli di questo album, partirei da una panoramica generale, chiedendoti come si è svolto il processo creativo di questo lavoro e cosa ti ha principalmente ispirato?

«Non è stato facile. Ho scartato tantissime canzoni, soprattutto all’inizio: mi sono ritrovato in studio da solo e non ero più abituato a questa dinamica. Avevo perso tanta fiducia in me stesso, perché avevo toccato apici altissimi, Sanremo in mezzo, e poi dall’oggi al domani mi sono ritrovato senza niente per le mani. Lo affronto tanto nel disco come tematica. All’inizio è stato tosto: essere ripartito con mezzi e opportunità diversi mi ha costretto a fare un bagno di umiltà e cento passi indietro. Ho ricominciato a prendere treni, andare in posti diversi per fare sessioni, a sbattermi tantissimo. All’inizio questa cosa mi buttava giù, ma poi mi ha dato una rabbia positiva, quella che ti spinge a rialzarti. È diventata una sfida. Mi sono circondato di persone che hanno creduto in me e questo mi ha dato forza. È stato un parto vero e proprio».

È molto interessante il concetto che c’è dietro al titolo “Maldivita”. Lo hai descritto come una malattia generazionale, come la febbre di un’epoca. Quali sono i sintomi, i mali più urgenti da curare di questo tempo che stiamo vivendo?

«La cosa più brutta è che dobbiamo sempre correre: produrre, consumare, essere perfetti. Viviamo in una società in cui il fallimento non è visto come passaggio, quando invece fallire è un’opportunità, ti resetta le convinzioni e tira fuori la vera essenza, anche di sopravvivenza. Siamo iperconnessi, ma scollegati: la troppa vicinanza ci allontana. E poi siamo sovraccaricati di stimoli: apri il telefono e hai tutto, niente più ti provoca emozioni vere. È questo secondo me il male di vivere costante».

A livello musicale, che tipo di lavoro c’è stato in studio dietro la ricerca del sound da dare a questo disco?

«Non volevo ghettizzarmi in un genere. In Italia si tende a mettere tutto in contenitori: trap, punk… Io invece so fare tante cose diverse e mi piace farle. Urlare, cantare, fare pezzi tendenti al rap o al pop. Il filo conduttore è scrivere testi conscious, profondi, che partono da un disagio. Il sound può essere più punk, più urban, ma ho cercato di spaziare. Ogni pezzo è un mondo a parte, ma tutti si incastrano. Il primo disco deve essere un biglietto da visita, per mostrare le tue anime».

Questo lavoro è stato anticipato da “Piccolo me”, “Come l’aria” e “Messaggio d’addio”. Cosa ti ha spinto a scegliere ciascuna di queste canzoni come anteprima di “Maldivita”?

«Per me i pezzi valgono tutti allo stesso modo, sono come figli. Ho voluto partire con “Piccolo me” perché era un punto della situazione, un restart da ciò che ero stato bambino fino a ora. Gli altri due sono stati scelti con più leggerezza, perché ormai il percorso era avviato. E senza nulla togliere a quei brani, penso che nel disco ci siano pezzi ancora più forti: con il tempo ho trovato la mia dimensione anche nel sound e nel timbro».

Tra le tracce inedite mi ha colpito “Dottore”, dove parli in modo diretto della salute mentale. Pensi sia un tema sufficientemente sdoganato oggi?

«Adesso si sta iniziando leggermente a sdoganare la questione, ma c’è ancora tanto da fare. Parlando con coetanei mi ha colpito sentire dire “meglio spendere soldi per la palestra che per lo psicologo”. È assurdo: il cervello è il centro di controllo, i muscoli sono le ruote. Se non si accende la macchina puoi andare dove vuoi ma non funziona. Io nel pezzo dico “niente mi fa male più della mia mente” perché sono molto sensibile. I più piccoli di me sono più aperti su questo tema, già quelli della mia età hanno ancora pregiudizi. Mi auguro che se ne parli sempre di più, anche a scuola».

“Dottore” è impreziosita dalla collaborazione con Nitro, mentre “Up & down” ti vede collaborare con i Bnkr44, poi c’è “Pipistrello” con 18K e “Messaggio d’addio” con Sally Cruz. Cosa hanno donato questi ospiti al disco e come ti sei trovato a lavorare con loro?

«Non volevo collaborazioni costruite: ho scelto solo amici. Nitro è arrivato all’ultimo, ma in modo sincero: ha ascoltato la mia musica, mi ha preso come fratello minore, ci siamo visti anche fuori dallo studio. Per me che ho comprato i suoi dischi da ragazzino è stato assurdo, mi ha dato un boost di serotonina incredibile. 18K mi ricorda il percorso che ho fatto io: scomodo, ma con fanbase vera. Sally Cruz è bravissima e appartiene a questa scena alternative di ragazzi diversi ma uniti da questo malessere e voglia di cambiare le cose. I Bnkr44 sono fratelli, Faster praticamente vive a casa mia nei weekend. Voglio spingere questa scena come avrei voluto fosse fatto con me anni fa».

Nei testi ti apri molto, racconti tanto di te stesso. Hai mai avuto paura che qualcuno potesse fraintendere le tue parole oppure il desiderio di esprimerti è più forte di qualsiasi timore del giudizio?

«Sì, a volte quando in studio mi escono cose pesanti mi vergogno, penso “cavolo poi lo sentiranno tutti”. Viviamo in un’epoca dove dobbiamo sembrare perfetti, quindi hai paura a tirare fuori le magagne. Però io penso che mostrarsi fragili sia la chiave. Non mi piace l’arte che parte dal sentirsi geni o fighi, preferisco quella che parte dall’insicurezza. Dolore e fragilità sono la cosa più bella, perché ci mettono in discussione e ci uniscono».

Quando ti apri così tanto è probabile che qualcuno dall’altra parte possa riconoscersi in ciò che provi. A tua volta, da ascoltatore, c’è stato un disco, una canzone, un artista che ti ha salvato nei momenti di down?

«Sì, un botto. Lil Peep, infatti il mio gatto si chiama Peep, e Juice Wrld. Purtroppo entrambi morti giovanissimi. Io dico sempre che ascolto artisti morti, non so perché. Loro mi hanno cambiato la visione della vita. Juice aveva migliaia di pezzi inediti a 21 anni, viveva per la musica. Ha reso figo essere insicuri. Mi hanno proprio svoltato».

Per concludere, quali skill pensi di aver acquisito con questo disco da solista rispetto ai lavori precedenti con La Sad?

«Adesso non mi ghettizzo in un solo genere: sono io. Se pensi a Plant non pensi più solo al pop-punk o all’emo-trap, pensi a me. Ogni brano è un viaggio a sé, il disco è più una playlist di concetti che un concept album. Ho messo dentro tutte le mie influenze e abilità. Penso che oggi la chiave sia avere concetti ben precisi: come un tema d’italiano. Le canzoni devono lasciare un messaggio preciso. Questo è quello che mi auguro di fare da ora in poi».

Scritto da Nico Donvito
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