Analisi sul fenomeno di ricambio musicale che negli ultimi anni ha colpito i giovanissimi ascoltatori
Secondo un’accurata ricerca dell’Università della Terza Età, la frase che più viene pronunciata ai giardinetti pubblici è “ai miei tempi”. Non vorrei sembrarvi anziano, ma ai miei tempi sapevi che Laura Pausini o Eros Ramazzotti sarebbero usciti con un nuovo progetto ogni due anni, aspettavi con ansia notizie che non arrivavano perché non c’erano i social network ad aggiornarti di continuo, ma avevi comunque la certezza che entro la fine dell’anno qualcosa sarebbe arrivato. Con l’avvento del nuovo millennio le logiche sono cambiate, la televisione ha mandato in pensione i talent scout, la profezia di Andy Warhol si è avverata e gli artisti hanno cominciato a guadagnarsi il proprio quarto d’ora di celebrità.
Ogni anno, in Italia, più di cento ragazzi si svegliano e partecipano ad un talent show, sanno di dover dare il massimo perché in giro c’è troppa concorrenza. Ogni anno, in Italia, non importa a quale casting partecipi, l’importante è che ti metti a lavorare seriamente una volta spente le luci dei riflettori. Un insegnamento trasmesso dal veggente Gianni Morandi che, già nella memorabile “Uno su mille ce la fa”, aveva intuito la direzione verso la quale saremmo andati a finire.
In tutto questo caos, come reagisce il pubblico? Alcuni si affezionano a determinati artisti, coloro i quali dimostrano un particolare carisma o una spiccata originalità, ma la maggior parte di chi segue questo genere di trasmissioni cambia i propri gusti come se aggiornasse la playlist di Spotify. Chiamiamolo pure “fan-sharing”, un fenomeno che destabilizza gli ex concorrenti e rende la musica sempre più liquida, fruibile e condivisibile dalla massa. Non si ha più nemmeno il tempo di conoscere un artista o di dare la possibilità a quest’ultimo di sbocciare, di crescere e di consolidare il proprio stile.
Un tempo vigeva la regola non scritta del terzo disco, ossia l’identità di un cantante veniva fuori dopo almeno due album, mi vengono in mente esempi come Mango, Rino Gaetano o tanti altri, che hanno avuto bisogno di carburare prima di arrivare ai loro massimi livelli. La sperimentazione oggi è un lusso che in pochi possono concedersi, destinato ai big e non agli emergenti, che devono vendere un tot di copie se vogliono arrivare al prossimo lavoro. Un processo distante anni luce dall’arte, che determina l’impoverimento culturale di un sistema ormai al collasso, orientato sull’incremento degli utili più che su mirati investimenti a medio-lungo termine, volti a durare più di una stagione.
Il nostro ruolo è fondamentale, bisogna tornare a seguire gli artisti in quanto tali, lasciando stare le storie di Instagram, i tweet o i post che riempiono le bacheche su Facebook: ristabiliamo l’ordine, restituiamo dignità e valore al ruolo di cantante e, al tempo stesso, ridiamo centralità al pubblico, ma non attraverso il televoto o le classifiche streaming (entrambi mezzi manipolabili e influenzabili). Restituiamo a figure professionali il compito di selezionare il menù da portarci al tavolo. Quando vado al ristorante mi aspetto un paio di pagine dove poter scegliere ciò che è di mio gradimento in quel momento, non un librone di ricette. Ecco, in un mondo ideale ci sarebbe più qualità a discapito della quantità e, magari, una bella mancia per il cameriere che ci ha consigliato il piatto del giorno.
Nico Donvito
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