A tu per tu con il cantautore romano, all’indomani della pubblicazione del suo ultimo album “Ciao cuore”
A quattro anni di distanza dal lancio di “Per tutti”, Riccardo Sinigallia torna sulle scene con un disco profondo e sanguigno, che mette in luce sia la passione che il suo carattere. Pubblicato lo scorso 14 settembre, “Ciao cuore” è impreziosito dalla presenza di nove brani inediti, un lavoro anticipato dal lancio dal videoclip dell’omonimo singolo, che vanta la partecipazione dell’attore e amico Valerio Mastandrea.
Ciao Riccardo, partiamo da “Ciao cuore”, com’è nato e cosa rappresenta per te questo progetto?
«E’ stato concepito lentamente, in maniera pensata, in controtendenza rispetto alle attuali logiche di mercato, dove chi lancia per primo un disco sembra che vinca un premio. Lo considero un album di relazioni dirette, ogni canzone diventa un personaggio e ogni personaggio ha una storia da raccontare. Mi sono voluto rimettere in gioco, con la mia innata calma che si può confondere con la pigrizia, ma è solo la voglia di realizzare le cose nel miglior modo possibile. Per alcune canzoni presenti in questo lavoro, ho impiegato anche otto anni per decontestualizzare ciò che in un momento d’ispirazione è venuto fuori, prendendomi tutto il tempo necessario per farlo».
Cosa hai voluto lasciare fuori e cosa hai voluto portare con te in questo disco?
«All’interno c’è tutto quello che ho inserito (ride, ndr), c’è un po’ quello che fa parte della vita, la malinconia ma anche l’ironia, mentre ho voluto lasciare fuori alcune canzoni che appartenevano ad una matrice che non mi rappresenta oggi molto, i brani che non riuscivo più a vestire di nuovo e che restavano ancorati troppo al mio passato. Trovarsi a scegliere cosa inserire in un album, per me è come frugare tra i ricordi, le gioie, le sofferenze e le cose che ho vissuto in un determinato periodo della mia vita. A Roma si dice “ciao core” quando ci si saluta e con una punta di cinismo si vuole comunicare l’idea che ciò che serviva dire lo si è detto. Ecco, in tal senso, credo di aver espresso tutto tra le tracce di questo disco».
Credibilità e sperimentazione possono convivere in musica?
«Assolutamente sì, credo che siano entrambe fondamentali e due facce della stessa medaglia, perché la credibilità si conquista con la sperimentazione, rischiando e provando con coraggio a portare avanti qualcosa di nuovo, all’inizio ricordando e somigliando a qualcosa che c’è già stato. Il vero successo lo si raggiunge quando trovi il giusto equilibrio tra quello che sei e ciò che componi, in quel momento hai raggiunto l’apice della tua espressione».
In questa discografia spaccata a metà tra l’indie e la trap, come ti collochi?
«Il vantaggio del sentirsi “fuori moda” è proprio questo, non collocarsi. Mi sono sempre sottratto alle etichette, proprio per mantenere la mia identità. Per fortuna sono fuori dalla trap e dell’indie di adesso, perché per me rappresentano una sorta di epidemia. Ovviamente, ci sono anche delle belle cose che salvo, ma in linea di massima il liguaggio e i cliché semantici sono abbastanza fuorvianti, a confronto tutto quel pop che ci ha torturato per vent’anni era pura poesia, mi sembra di sentire Brecht. Nei testi di oggi c’è una sorta di strafottenza, che inizialmente poteva pure essere interessante, mentre adesso è diventata una gara a chi dice “sti cazzi” più forte».
Qual è il vero ostacolo? Perché la musica con un certo contenuto non riesce più ad arrivare al pubblico?
«Da quando negli anni ’80 è morto il cantautorato, la musica italiana è diventata una specie di franchising di un marchio anglo-statunitense, una filiale mediterranea dove scaricare i loro prodotti, devo ammettere di buona qualità. Il problema è diventato quando abbiamo iniziato noi a voler fare quelle cose, con i nostri mezzi e una cultura che non ci appartiene. Sono sempre stato un grande sostenitore della tradizione cantautorale del nostro Paese, pur subendo parecchio il peso delle formule musicali e produttive che quella corrente ci ha proposto e continua a proporci. Amo spezzare la monotonia, mi interessa testare le infinite potenzialità che una canzone può avere e questo senza mai eliminare del tutto la serendipità, la scoperta casuale di un passaggio magari imperfetto, ma che all’ascolto ti smuove qualcosa dentro».
E dal punto di vista della scena politica, come descriveresti l’attuale scenario italiano?
«Guarda, le cose che ho appena detto sulla discografia possiamo trasferirle come un file del nostro computer dalla cartella “musica” a quella “politica”. Cosa sono Salvini e Di Maio se non la trasposizione umanoide della trap e dell’indie? Salvini mi ricorda proprio Young Signorino e Di Maio ha proprio la faccia da indie-pop italiano! E’ un fatto culturale, la politica e la musica soffrono terribilmente di questa mancanza».
Per concludere, chi è Riccardo Sinigallia oggi?
«Un uomo con uno sguardo molto più lucido sulla realtà. Ho compreso completamente la relazione tra musica e testo, trovo che sia fondamentale incastrare questi due aspetti per la buona riuscita di una canzone. Ho affinato l’aspetto letterario e sono abbastanza maturo per poter affermare di aver capito nel profondo la potenza della parola e la forza della poesia. La musica è una passione che mi ha salvato la vita, non riesco ad immaginare nemmeno un giorno della mia esistenza senza la presenza di questa forma d’arte».
Nico Donvito
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