giovedì, Marzo 28, 2024

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Sandro Giacobbe: “La vita è piena di bivi su cui vale la pena riflettere” – INTERVISTA

A tu per tu con il cantautore genovese, in uscita con il nuovo singolo “Solo un bacio” a sostegno dei minori, figli delle vittime del Ponte Morandi

Tempo di nuova musica per Sandro Giacobbe, cantautore ligure che ha riscosso grande popolarità negli anni ’70-’80, partecipando tre volte al Festival di Sanremo e piazzando in classifica diversi brani di successo, tra cui ricordiamo “Signora mia”, “Il giardino proibito”, “Gli occhi di tua madre”, “Il mio cielo, la mia anima”, “Sarà la nostalgia”, “Primavera” e “Io vorrei”. Si intitola “Solo un bacio” il singolo che lo riporta in radio e negli store musicali, un brano importante a favore dei minori, figli delle vittime del ponte Morandi, tragedia che ha colpito la sua Genova lo scorso 14 agosto. In occasione di questo bel ritorno discografico, abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista per parlare del nuovo brano e della sua storia.

Ciao Sandro, partirei dal presente e dal tuo nuovo singolo “Solo un bacio”, che sapore ha per te questo brano?

«E’ forse la prima volta che mi emoziono con una mia canzone, non solo quando la canto ma anche quando la sento, perché parla di tutto quello che è successo a Genova dopo il crollo del ponte. Quindi, lo stato d’animo che mi ha lasciato è stato talmente forte da scrivere queste parole, che raccontano di come la fatalità e il destino sono legati a dei piccoli momenti che, vissuti in un modo o nell’altro, possono condizionare profondamente la vita di ognuno di noi». 

Sei stato ispirato dalle storie delle famiglie delle vittime?

«Inevitabilmente sì, in particolare sono entrato un po’ nel vivo delle storie di cinque famiglie, perché ho preso parte a delle manifestazioni in sostegno degli undici bambini che hanno perso i loro genitori in questa tragedia, ai quali saranno devoluti i proventi di questa canzone. Ho vissuto il loro dolore e spero di poter dare loro una mano, attraverso quello che so fare: cantare». 

Da genovese, come hai vissuto questa grossa ferita che, in realtà, ha colpito l’Italia intera lo scorso agosto?

«Mi trovavo in Calabria, vicino Cosenza, accendendo la televisione abbiamo appreso quanto accaduto e siamo rimasti increduli, un po’ come l’11 settembre del 2001. Non riuscivamo a crederci, per un genovese il Ponte Morandi rappresentava uno snodo nevralgico, sia per andare verso levante che per ponente, l’ho attraversato milioni di volte. E’ una tragedia che ha toccato il cuore di tutti, non solo di noi liguri, ma dell’Italia e del mondo intero».

Un brano melodicamente fedele alla tua storia e a quelle che sono le tue produzioni più note. Quali innovazioni contiene rispetto al passato?

«Sicuramente si avvicina molto di più al tipico cantautorato genovese, in più contiene anche un refrain in dialetto, dal punto di vista sonoro è un brano etnico e un po’ mediterraneo. Solo attraverso una ballata di questo genere, con quel tipo di atmosfera, potevo riuscire a raccontare una storia così delicata, anche perché non ho voluto citare direttamente la vicenda del ponte Morandi, bensì raccontare la storie di due persone che, loro malgrado, sono coinvolte in un dramma che poteva coinvolgere chiunque».

Aspetto che avete voluto ripercorrere e sottolineare anche attraverso le immagini del videoclip?

«Esattamente, il video è nato sviscerando le parole del testo, volevo che fosse un film con la mia canzone in sottofondo, infatti, io appaio solo in un paio di scene, i protagonisti sono due coniugi interpretati da due bravissimi attori, ovvero Alessandra Matarazzo e Gianluca Milano. Le immagini raccontano una storia d’amore che si intreccia con i binari di scambio della vita, che ti spinge a pensare riflettendo su quanto sia fragile la nostra esistenza. E’ difficile, ma alle volte vale la pena soffermarsi a riflettere su questo aspetto».

Che rapporto hai con il fato? Ci sono stati dei momenti nella tua vita, sia personale che professionale, in cui hai ripensato col senno di poi a determinate azioni?

«Sai, la vita è piena di questi bivi, qualsiasi nostra decisione può portarti in una direzione piuttosto che in un’altra. Ti racconto un paio di aneddoti: il primo all’inizio della mia carriera, non avevo ancora fatto un  disco di successo, stavo lavorando a “Signora mia” ma non era ancora finita. Il mio produttore, anziché andare a casa in macchina perché era rotta, ha preso la metropolitana e ha incontrato per caso il direttore generale della casa discografica GCD, ha preso con lui un appuntamento e da lì, grazie a quell’incontro fortuito, è nato il mio successo.

Il secondo episodio, invece, mi ha cambiato la vita al contrario, perché mi avevano chiamato dalla Sony a Parigi per firmare un contratto internazionale, era praticamente tutto pronto, se non che la settimana dopo al mio posto prendono Claudio Baglioni. Lui ha continuato a fare musica tutelato da una multinazionale, io mi sono dovuto rimboccare le maniche autoproducendomi come tanti miei colleghi. Capita, sono situazioni che ti portano a prendere direzioni diverse, alcune volte può andarti bene e altre peggio, siamo tutti soggetti a questo tipo di casualità».

Hai partecipato al Festival di Sanremo tre volte, casualmente calcando ogni volta un palco diverso: nell’76 era l’ultimo anno al Salone delle Feste del Casinò, nell’83 all’Ariston e nel ’90 al Palafiori di Arma di Taggia, perché il teatro era in ristrutturazione. Che ricordi hai di queste tre diverse esperienze?

«Nel 1976 ho esordito a Sanremo con l’incoscienza del favorito della vigilia, ho cantato “Gli occhi di tua madre” ed ero considerato il vincitore fino a un minuto prima dell’ultima votazione. Con il Secolo XIX, giornale della mia città, ho preso meno voti che dalle altre testate e sono arrivato terzo, ma la canzone è stata comunque un grande successo, ancora oggi non posso non cantarla ai miei concerti perché è forse quella che il mio pubblico ama di più.

Nel 1983 ho debuttato all’Ariston, ma non era come oggi, si cantava con le basi e non c’era l’orchestra, c’era stato lo scandalo di Vasco Rossi che, allontanandosi dal microfono durante l’esibizione, aveva in qualche modo smascherato il playback. Io portavo “Primavera”, ma c’erano tante belle canzoni, ricordo in particolare “Vacanze romane” dei Matia Bazar e “L’Italiano” di Toto Cutugno.

Nel 1990, infine, è stato un Festival molto particolare, come hai detto tu non si svolgeva a Sanremo, bensì ad Arma di Taggia, in un ambiente surreale, una specie di fiera con un palco di 70 metri che faceva davvero impressione. C’era una grandissima orchestra e, da regolamento, ogni artista era abbinato ad un cantante straniero, io ho avuto l’onore di essere stato accoppiato con gli America e portavo in gara “Io vorrei”, una canzone fortunata che, a distanza di qualche anno, è stata poi ripresa dal messicano Cristian Castro, ottenendo un grandissimo successo nei Paesi latini»

E come vedi il Festival di Sanremo oggi?

«Ancora al top, partecipare a Sanremo oggi vuol dire stare al centro dell’attenzione mediatica per un’intera settimana, tutti parlano del Festival e, a livello promozionale, in sette giorni fai il lavoro di un anno. Onestamente mi spiace non esserci, con “Solo un bacio” ci avevo provato, ma ci sono degli interessi che vanno al di là delle canzoni, come tutti sappiamo, la manifestazione è legata a mille situazioni, ad agenzie artistiche e partner che non permettono molto spazio. Purtroppo non ce l’ho fatta, ma sono sicuro che questa canzone prenderà la sua strada e mi darà comunque delle soddisfazioni».

Facendo un parallelismo con il mondo di oggi, pensi di che sia più semplice emergere dal punto di vista discografico? 

«Apparentemente oggi sembrerebbe tutto molto più facile, basta partecipare ad un talent per far sì che si accendino i riflettori della felicità, la vita di questi ragazzi cambia drasticamente da un momento all’altro. I problemi arrivano dopo, una volta che le luci si spengono. Ne abbiamo visti tanti, tantissimi, che purtroppo non trovano spazio in questo sistema ormai sovraccarico di cantanti. L’ho toccato con mano anche come produttore, occupandomi qualche tempo fa di Edson D’Alessandro, vincitore della terza edizione di “Tu si qui vales”, abbiamo fatto insieme una canzone che, tutto sommato, siamo riusciti a spingere nelle radio, ma non abbiamo potuto fare di più da indipendenti».

Forse, un tempo, anche se il successo veniva a mancare riuscivi a ricordarti di un artista, veniva dato al pubblico il tempo per affezionarsi ad un personaggio. Oggi?

«Oggi è cambiato il mondo a livello di promozione, questo tipo di trasmissioni sono costruite per ottenere una notorietà temporanea, semplicemente perché l’anno successivo è prevista una nuova edizione. Nella mia epoca, se una casa discografica credeva in un cantante lo proponeva più volte, magari il successo arrivava al terzo disco, perché spesso la consapevolezza artistica arriva col tempo, questo è un lusso che ai ragazzi non viene più dato, ti giochi la tua possibilità e il successo come arriva poi se ne va’».

Hai composto diversi pezzi per lo Zecchino D’Oro, mostrando particolare attenzione a quella che possiamo considerare la “canzone d’autore per l’infanzia”, spesso bistrattata da alcuni ma nobilitata da artisti del calibro di Sergio Endrigo e Bruno Lauzi. Come ti sei avvicinato a questo filone?

«Per caso, conoscendo un ex ammiraglio della marina che abitava vicino casa mia, come hobby scriveva testi per lo Zecchino D’Oro, un giorno mi ha proposto di comporre la musica di “Sette note per una favoletta”, brano che poi ha vinto l’edizione del 1976. Con lui abbiamo fatto anche “Il sole e il girasole” poi, a distanza di tanti anni, sono tornato a collaborare con il Piccolo Coro dell’Antoniano nel 2013 e, nel cinquantesimo anniversario dalla nascita della fondazione, ho cantato con e per i bambini “Insieme noi”, una canzone dai forti contenuti morali, che non era nata per quel contesto ma ben si adattava allo spirito dell’infanzia». 

Per concludere, cosa ti senti di dire alle persone che da quarantacinque anni ti seguono e ascoltano la tua musica?

«Beh, non posso far altro che abbracciarle e ringraziarle per tutto l’affetto che non hanno mai spesso di regalarmi, questa è la cosa più bella, perché io vivo di musica e di quello che riesco a fare attraverso questo mestiere, aiutando gli altri e le associazioni legate al mio territorio. Non dimentichiamoci mai che la salute e l’amore sono le cose più importanti della vita, il resto passa assolutamente in secondo piano». 

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Nico Donvito

Appassionato di scrittura, consumatore seriale di musica italiana e spettatore interessato di qualsiasi forma di intrattenimento. Innamorato della vita e della propria città (Milano), ma al tempo stesso viaggiatore incallito e fantasista per vocazione.
Nico Donvito
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