Sanremo Giovani 2025, conosciamo meglio Occhi – INTERVISTA

Occhi

A tu per tu con il giovane artista classe 2004 in gara a Sanremo Giovani, per parlare del brano “Ullallà”. La nostra intervista a Occhi

Occhi, all’anagrafe Andrea Occhipinti, è tra i 24 concorrenti in gara a Sanremo Giovani 2025 con “Ullallà”, il nuovo singolo pubblicato per Nigiri / Sony Music Italy. Classe indie contemporanea e cuore da cantautore, arriva sul palco del contest dopo un percorso costruito con pazienza tra studi, prime uscite discografiche e una scrittura che punta dritto alle fragilità della sua generazione.

Con “Ullallà” porta in tv un valzer anomalo, capace di rompere le regole del cantautorato pop moderno: un brano che sembra nascere in presa diretta in un bar di provincia, tra tavolini di formica e bicchieri mezzi pieni, e che racconta la voglia di innamorarsi a vent’anni mentre si fa i conti con la fatica di crescere e con l’incertezza del futuro. Una canzone che ti fa sentire piccolo di fronte alle grandi domande della vita, ma anche profondamente compreso, nel semplice gesto di condividere un ballo, magari incerto, con qualcuno che porta addosso le stesse paure quotidiane.

Dagli esordi nel coro di Lodi al lavoro in studio con Etta e Raffaele Matteucci, passando per un immaginario che guarda ai grandi dell’indie italiano, Occhi arriva a Sanremo Giovani con un pezzo che unisce intimità, visione e coraggio. Noi di Recensiamo Musica l’abbiamo incontrato per farci raccontare meglio questo debutto e lo sguardo con cui prova a rimettere a fuoco il mondo.

Sanremo Giovani 2025, conosciamo meglio Occhi, l’intervista

Manca davvero poco al debutto televisivo di Sanremo Giovani, un appuntamento che immagino tu abbia cerchiato di rosso sul calendario. Come stai vivendo questa attesa, come la stai esorcizzando?

«Allora, sono abbastanza tranquillo devo dire. Mi sto preparando un sacco, che è la mia maniera di stemperare l’ansia: essere molto preparato, anche tecnicamente, mi fa stare tranquillo per l’esibizione. Quindi sto provando tanto, sto pensando un po’ a tutto, però sono tranquillo. È come a scuola: più sei preparato, più vai tranquillo. È come un esame all’università».

“Ullala” è il titolo della canzone che hai scelto di proporre alla commissione. Come è nata e cosa rappresenta per te?

«“Ullala” nasce in una stanzina del mio oratorio a Lodi. Ero lì che stavo suonando e avevo per le mani questi quattro accordi. Mi sono reso conto che, se li avessi trasformati in un valzer, mi mandavano subito in questa dimensione un po’ sognante, un po’ nostalgica del passato. Appena li ho suonati in questo ritmo di valzer mi è venuto subito in mente il “non sparate sul pianista, gentili signori” e poi fine, avevo quella cosa lì. Poi ho scritto un pochino, ho scritto prima l’intro del brano senza pensare che si chiamasse “Ullala”, senza pensare a niente, e la facevo sentire ai miei amici: tutti ridacchiavano perché sentivano questa intro qua del “non sparate sul pianista” e sorridevano. Poi ci abbiamo lavorato in studio ed è uscito questo brano qua che, devo dire, ad oggi è uno di quelli di cui sono più soddisfatto e che sento che mi rappresenta di più. Io in generale lavoro certe volte anche con degli autori, con dei co-autori, però sono molto soddisfatto che alla fine il brano che abbiamo scelto sia un brano che ho scritto interamente io a livello di testo».

Nel dettaglio, che tipo di lavoro c’è stato sul sound con Etta e Raffaele Matteucci per rendere contemporaneo questo valzer?

«Ho lavorato con Etta e anche con Raffaele Matteucci. Io credo molto nell’affidare la propria musica a chi ha una visione per quella musica. Io ci ho visto fino al pianoforte, diciamo. Poi dopo è stato bravissimo Etta e anche Raffa. Soprattutto Raffa ha avuto questa idea dei cori nel ritornello che per me hanno svoltato il brano. Etta ha avuto l’idea di chiamare Raffa perché ha detto: “Qua ci serve lui”. E io ho imparato anche che non bisogna essere gelosi delle proprie canzoni: se c’è qualcuno che ha l’intuizione, vai, vieni, falla, facciamolo. Anche con un po’ di pazzia: per esempio, per tutto il brano c’è questo mandolino che suona sotto, che però è letteralmente un mandolino che era lì dimenticato nel magazzino. Raffa l’ha visto e ha detto: “Oh raga, ma c’è un mandolino, suoniamolo”. L’ha preso, l’ha suonato e ha detto: “Questo lo mettiamo”. Quindi: poca gelosia, tanta fiducia. Con Etta ho iniziato a lavorare da quest’estate, è un periodo per me di tanti cambiamenti, faccio tante cose nuove, e quello che adoro di più di lui è che ha proprio una visione sul brano: tante volte vede cose che io ancora non vedo».

A livello narrativo, cosa aggiungono per te le immagini del videoclip diretto da Tommaso Barbulini?

«La mia idea è che quando un utente fruisce di un contenuto, mi piace che ogni elemento del contenuto arricchisca la sua esperienza. Se tu ascolti la canzone, ci sta che nella canzone ricevi qualcosa. Se poi vai a vedere pure il video, quindi introduciamo il lato visivo, mi piace che ci sia un messaggio ulteriore che viene trasmesso. Non deve essere per forza didascalico il video, ma può raccontare qualcosa in più. Dato che il brano ha varie linee di significato, mi piaceva averne una anche che venisse raccontata dal videoclip. C’è la tematica del crescere, dell’innamorarsi e quella del valzer: ho unito queste cose e ho preso persone che o si amano o hanno comunque un rapporto nella vita, le ho fatte ballare anche se non sono tutti dei professionisti, e abbiamo visto come questa cosa si manifestasse in maniera diversa nelle varie età. Il bambino che ride e si vergogna, l’adolescente che non ha mai ballato e non si ricorda più come si fanno due passi, e l’anziano di 80 e passa anni che con la compagna di una vita ha una complicità unica».

Raccontaci come ti sei avvicinato alla musica da bambino nel Lodigiano e quando hai capito che poteva essere la tua strada.

«Mi sono avvicinato alla musica da piccolissimo, a sei anni, perché cantavo nel coro delle voci bianche della cattedrale di Lodi e poi, sempre a sei anni, ho iniziato a studiare pianoforte. Il “click” è arrivato più tardi. Il giorno che ho pubblicato la mia prima canzone, che è “Kandinsky”, andavo ancora alle superiori. La mia professoressa di fisica è venuta a cercarmi con le lacrime agli occhi, mi è saltata al collo abbracciandomi e mi ha detto una cosa che fa spaccare, perché mi ha detto: “Ma Occhi, non avevo capito che eri bravo”. Poi mi ha detto che quella canzone l’aveva aiutata molto quella mattina. E io lì mi sono detto: cavolo, ma se la musica di un 18enne sbarbato di quinta superiore può trasmettere qualcosa a una persona che ha un vissuto così tanto più grande di me… forse conviene investirci su questa cosa qua».

Il tuo nome d’arte, Occhi, deriva dal tuo cognome, Occhipinti. Che significato gli attribuisci?

«All’inizio ero un po’ allergico a chiamarmi come il mio cognome, mi sembrava una scelta banale. Però dopo, crescendo, mi sono chiesto: che cos’è per me la musica, che cosa voglio trasmettere, perché lo faccio? Mi sono reso conto che il motivo per cui faccio musica è anche ridare dignità a tutte quelle persone che spesso sono nascoste, che non vengono viste da nessuno, e anche a quei sentimenti che spesso lasciamo da parte, che non sono quelli più mainstream, non sono quelli più cool. Però queste cose qua ho scoperto che le possiamo guardare con altri occhi. Ed è questo quello che io voglio trasmettere con la mia musica: voglio che la mia musica sia per gli altri uno sguardo sul mondo che avevano perso».

Dagli occhi alle orecchie: quali ascolti e quali artisti hanno accompagnato la tua crescita e ti hanno influenzato di più?

«Io sono cresciuto con i grandi dell’indie italiano, quindi i vari Coez, Frah Quintale, Calcutta. Sono proprio il mio “go to” giornaliero: salgo in macchina e il mio tasto play è quello. Poi ovviamente ascolto un po’ di tutto, però loro sono la mia comfort zone. Infatti, se dovessi sognare in grande, un giorno mi piacerebbe che il 15enne del futuro, l’Andrea del futuro, possa dire: “Sì, i grandi dell’indie italiano: Frah Quintale, Coez, Calcutta, Occhi… quelli lì”».

Essendo così giovane, che rapporto hai con il Festival di Sanremo? Lo hai sempre seguito o ti sei avvicinato più di recente?

«Io mi sono avvicinato dalle ultime edizioni. Prima per me era una cosa che guardavano i miei genitori, però comunque un pochino seguivo. Sicuramente c’è già stato un processo di avvicinamento ai giovani in generale del Festival. Per me oggi Sanremo non è più il Festival della musica in Italia, ma è il Festival dell’Italia: è una cosa così grande che chiunque guarda Sanremo. Sanremo è davvero il centro della nostra cultura pop di oggi, e questa cosa è estremamente affascinante per me».

Qual è il primo ricordo che ti viene in mente se ti dico “Sanremo”? Una performance, una canzone, un artista?

«Forse la prima cosa che mi ricordo di aver visto di Sanremo è Gabbani con “Occidentali’s Karma”. Avevo 13 anni e mi ricordo questa scimmia che balla: alle medie spingeva un sacco ed era la hit per noi. Cronologicamente è la prima canzone che mi ricordo del Festival».

Per concludere: al di là del passaggio e dell’eventuale approdo all’Ariston, cosa speri di ottenere da questa esperienza? Qual è la tua vittoria personale?

«La prima vittoria è esserci. Se devo essere sincero, io non è che avessi tutte queste speranze concrete di essere preso. Ci siamo proposti con tanta voglia di fare, con entusiasmo, però non è che dicevo: “Mi propongo e spero di essere preso”. Quando ho visto di essere addirittura tra i 34 ci ho fatto i salti di gioia, anche perché è il primo anno che provo a fare Sanremo Giovani, con Nigiri abbiamo iniziato a lavorare da pochissimo, ho iniziato a fare musica due anni fa. È tutta una cosa nuova che sta succedendo. Per me, ad oggi, la vittoria principale è andare su quel palco e portare la mia musica, quello in cui credo, le mie sonorità, i miei testi, su un palco con un’audience così grande. Poi il risultato sarà quello che sarà: fa parte del gioco e si accetta qualsiasi cosa arrivi. Però per me esserci lì è la vittoria più grande».

Scritto da Nico Donvito
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