Sanremo Giovani 2025, conosciamo meglio Welo – INTERVISTA

Welo

A tu per tu con il giovane artista pugliese in gara a Sanremo Giovani, per parlare del brano “Emigrato”. La nostra intervista a Welo

Si intitola “Emigrato” il pezzo con cui Welo prende parte all’avventura di Sanremo Giovani 2025 e che ha conquistato un posto tra i semifinalisti. Il brano, disponibile su tutte le piattaforme digitali, è un vero manifesto generazionale: racconta senza filtri la realtà di chi parte perché “non c’è scelta”, tra lavoro in nero, famiglie che resistono, tradizioni che tengono in piedi e paesi dove i trattori sostituiscono i grattacieli. Nessuna idealizzazione, nessuna scorciatoia: solo vita vera, spesso scomoda, trasformata in musica.

Con un linguaggio diretto, una scrittura ruvida e una produzione che intreccia suoni popolari e contemporanei, Welo conferma la sua identità autentica e la necessità di dare voce a storie che raramente trovano spazio nei riflettori mainstream. In vista del prossimo step, lo abbiamo incontrato per parlare di attesa, verità, radici e di quella rabbia mista a speranza che attraversa “Emigrato”, una canzone che non smette mai di appartenere a chi parte e a chi resta.

Sanremo Giovani 2025, conosciamo meglio Welo, l’intervista

Manca pochissimo al secondo appuntamento con Sanremo Giovani. Come stai vivendo questo periodo e come stai esorcizzando l’attesa per il prossimo step del 9 dicembre?

«Guarda, io sono semplicemente molto carico, non vedo l’ora che arrivi questo martedì perché oltre che per me è veramente una sensazione di avere una città sulle spalle. Quindi non vedo l’ora che arrivi per poterla rappresentare e dare il meglio di me. C’è tanta gente che mi sta aspettando, quindi non vedo l’ora».

Quali sono i feedback o i commenti che ti hanno fatto più piacere da parte della tua gente, della tua città?

«La cosa che mi fa più piacere, che sto notando dopo l’esibizione, è che tutti mi stanno dicendo che sono molto vero, molto reale anche nelle mie sbavature, nelle mie imprecisioni. Riconosco di non essere un cantante come altri in gara che hanno magari un percorso vocale più lungo del mio: io vengo dal rap, quindi è tutto nuovo per me. Però sono contento di aver compensato certe carenze con una verità, una realtà che ho semplicemente perché sono fatto così. La cosa più bella per me è quella».

Torniamo un attimo indietro: le audizioni del 28 ottobre in via Asiago e la puntata del 25 novembre. Come hai vissuto quei due momenti? C’era ansia? Sei riuscito a mantenere la concentrazione?

«Non ti nego che ovviamente un pochino di ansia c’era, ma ti dico anche che sarebbe un problema se non ci fosse: vorrebbe dire che della roba non te ne frega niente. Quindi sì, c’era, assolutamente. Però prevalevano le sensazioni positive: l’adrenalina, la voglia di gridare questa canzone in faccia a chi mi stava ascoltando in quel momento. Le ho vissute con poca ansia ma con tantissima felicità, la verità».

“Emigrato” è il brano che hai scelto di portare a Sanremo Giovani. Come è nato e cosa rappresenta per te?

«Guarda, è nato in maniera totalmente spontanea, come tutte le mie canzoni. Io sono uno che va in studio e scrive. È nata così, in un pomeriggio come un altro. Poi si fanno le verità di ascolti e dici: “Ok, magari potremmo provare questa cosa qua”. Per me era impensabile, perché, come ti ho spiegato, non vengo da questo mondo qui e per me è un primo passo dentro un sistema diverso da quello a cui ero abituato: Sanremo è una cosa, il rap è una cosa un po’ a sé».

Quando la canti, in “Emigrato” c’è più rabbia o più voglia di riscatto?

«Guarda, io penso sia un po’ 50 e 50, in realtà. Rabbia ce n’è, perché ci sono storie che spesso e volentieri non vengono mai ascoltate dalle persone e però succedono: storie di persone con problemi economici, familiari, sociali, problemi gravi. C’è voglia di riscatto perché io spero che il mio territorio cresca sempre di più e consenta ai ragazzi di prendere decisioni più razionali per la propria vita, meno lesive. Spesso e volentieri noi giù vediamo tantissime storie di ragazzi che sono costretti a fare un certo tipo di vita, oppure ad andarsene per costruirsene una normale, ma soffrendo dentro per la mancanza della famiglia e della propria città. Quindi è davvero un mix di queste due emozioni».

Dal punto di vista musicale, che tipo di lavoro c’è stato in studio sulla ricerca del sound di “Emigrato”?

«Era già un pochino di tempo che stavo andando in questa direzione, prendendo chitarre, fisarmoniche… Stavo sviluppando questo mio sound che a me piace molto perché rappresenta un po’ il suono popolare del Sud, però l’ho cercato di rendere più fresco, più alla portata di tutti. È bello perché rappresenta il mio ipotetico nonno come il ragazzino. A me piace per questo. È nato anche quello in maniera totalmente spontanea: nei mesi in cui ho lavorato in studio ho cercato un sound che finalmente mi calzasse a pennello per la persona che sono e secondo me l’abbiamo trovato. Infatti “Emigrato” non è un episodio: ho un sacco di pezzi che continuano il racconto e poi la gente vedrà quello che ho in testa».

Arriviamo al tuo nome d’arte: perché proprio “Welo”? Come nasce questo pseudonimo?

«In realtà qui non ho una risposta esaustiva, perché nasce veramente per sbaglio. È nato con gli amici al parchetto, quando fai freestyle da piccolo. È una parola che è saltata fuori così, non ha un vero significato. Però mi piaceva e ho iniziato a dire “ah, Uelo… Welo… Welo”, e mi è rimasto.»

Hai avuto modo di ascoltare le canzoni degli altri concorrenti di Sanremo Giovani? Qualche brano che ti ha colpito particolarmente?

«Sì, le ho sentite quasi tutte. Sicuramente la mia preferita era… e dico “era” perché è uscita poco la notizia del suo ritiro. il brano di Soap, che per me è veramente fortissimo. Sono sicuro che abbia un futuro enorme davanti perché rispecchia i miei gusti: per me è un’artista che spacca al 100%. Super real pure lei nel modo di esibirsi, nel modo di scrivere. Le auguro il meglio, mi dispiace per questo ritiro, ma “Buona vita” è un gran pezzo, veramente fortissimo».

Che rapporto hai con il Festival di Sanremo? Lo hai sempre seguito o ti sei riavvicinato solo negli ultimi anni, come molti tuoi coetanei?

«Lo vedevo quando ero proprio piccolo, perché in casa si guardava. Poi c’è stata una fase in cui l’ho perso di vista, più o meno dal 2012 al 2018. L’anno di Mahmood ha riavvicinato un po’ tutti noi ragazzi, la verità è quella. Lui è stato rivoluzionario, Amadeus ha cambiato il format in modo che piacesse anche ai giovani. Da lì in poi l’ho guardato ogni anno».

Per concludere, al di là del passaggio e della possibilità di giocarti la finalissima e l’Ariston a febbraio, cosa ti piacerebbe portarti a casa da Sanremo Giovani? Qual è la tua vera vittoria?

«La mia vera vittoria è già il fatto che la mia città mi stia sostenendo come se fossi davvero “loro”. Ho la sensazione che dal signore di quarant’anni al ragazzino di quindici mi stiano supportando come se fossi un loro amico o un loro fratello. E quella per me è già una vittoria, perché significa che sono arrivato al cuore delle persone a cui volevo arrivare. Quello che succederà in più è tutto un di più. Ovviamente sto puntando al massimo, non sono qua per dire che se esco non mi dispiace: a questo punto devo provare a vincere, perché sono qui per competere e mi sono impegnato come tutti gli altri. Ma se parliamo di vittoria morale, per me è questa».

Scritto da Nico Donvito
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