A tu per tu con il cantautore italo-svizzero, in gara tra i ventiquattro finalisti con il brano “Niwrad”
Parla cinque lingue Roberto Saita (italiano, tedesco, inglese, spagnolo e francese), ma la musica è il codice che ha scelto per arrivare alle persone in maniera universale. “Niwrad” è il brano con cui si è aggiudicato la vittoria di Area Sanremo, un lungo percorso che lo ha portato dritto alla finalissima di Sanremo Giovani, in scena giovedì 20 e venerdì 21 dicembre in prima serata su Rai Uno. A poche ore dal suo debutto sul palco del Casinò, abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista italo-svizzero, per scoprire quali sono a caldo le sue emozioni.
Ciao Roberto, partiamo da “Niwrad”, brano con cui partecipi a Sanremo Giovani, pezzo che incuriosisce già dal titolo. Com’è nato?
«Il titolo non è altro che la parola “Darwin” scritta al contrario, rappresenta l’involuzione e la piega che sta prendendo la nostra umanità. Ho composto questa canzone con Marco Leali, insieme abbiamo voluto parlare di quanto siamo piccoli in questo mondo, anche se non mi piace spiegare una canzone, vorrei che fosse il pubblico ad attribuirle un significato».
“Più complesse son le cose più sono evolute”, un verso che racchiude un po’ la nostra società, sempre alla ricerca continua della perfezione. In che direzione stiamo andando?
«Credo che all’interno delle cose semplici sia nascosto il senso della nostra esistenza, spesso ci affanniamo a cercare di essere migliori ma non capiamo che la perfezione non esiste, mai dare troppo valore all’apparenza. Quando scrivi un testo è difficile cercare di parlare con un linguaggio universale che possa essere compreso da più persone, soprattutto con un argomento così delicato e personale».
A livello musicale, invece, quali sonorità hai scelgo di abbracciare per evidenziare al meglio il significato delle parole?
«In realtà nemmeno ci ho pensato piú di tanto, una notte non riuscivo a dormire e mi sono trovato davanti un pianoforte, ho messo le cuffie e gli accordi sono arrivati molto spontaneamente. La musica è proprio questo, nasce all’improvviso e nessuno può controllarla».
Personalmente, credi di aver raggiunto una personalità artistica ben definita o ne sei ancora alla ricerca?
«Ho ventinove anni, di musica ne ho sentita e ne ha fatta parecchia, sono felice e fiero del mio percorso, mi ritengo alla ricerca continua della mia identità, bisogna sempre crescere nella vita, in qualsiasi cosa, non solo nel canto. Oggi sto bene, sento di aver raggiunto un equilibrio, vivo tutto con molta tranquillità, sai, in passato era un po’ più ansioso, mentre adesso posso ritenermi soddisfatto di quanto realizzato sino ad ora».
Facciamo un salto indietro nel tempo, come e quando ti sei avvicinato alla musica?
«All’età di sei anni frequentavo il coro della chiesa, i miei due fratelli più grandi già cantavano, io ero il più piccolino e mi ritrovavo sempre davanti (sorride, ndr). In seguito ho preso lezioni di pianoforte ed è scoppiata la passione, penso che suonare uno strumento sia fondamentale ai fini di un’esibizione, perché riesci ad esprimerti in due modi contemporaneamente, con le mani e con la voce».
Quali ascolti hanno ispirato e accompagnato il tuo percorso?
«Davvero tanti, mi piacciono molto il blues e il funky, ho sempre ascoltato Stevie Wonder e Ray Charles, di italiani Zucchero, perché ho sempre mescolato i generi che più mi piacciono pur cantando nella stragrande maggioranza dei casi in italiano. Mi reputo alla continua ricerca di nuova musica, perché credo che ogni musicista ispiri sempre qualcun altro, anzi è proprio ascoltando quello che non ci piace che ci aiuta a crescere e conoscere cose nuove».
Mamma siciliana, papà italo-argentino, abiti con la tua famiglia in Svizzera, tante contaminazioni di culture diverse. Quanto ha tutto questo nella tua musica?
«Beh, tantissimo. Pensa che nella mia band c’è un chitarrista greco, un batterista svizzero, un pianista cileno e un bassista irlandese, quindi puoi immaginare quanto possiamo divertirci e imparare l’uno dall’altro. È bello sentire tutto, lasciarsi ispirare da tanti tipi di musica e di colture diverse, proprio per trovare la tua identità e la giusta dimensione».
Provieni dal lungo percorso di Area Sanremo, che esperienza ha rappresentato per te?
«È stata dura, all’inizio nemmeno volevo andarci, ricordo che la prima tappa era a Novara, ero indeciso se andare perché all’indomani avrei dovuto lavorare e per Zurigo sono circa due ore mezza di strada. Mio padre mi ha convinto ad andare accompagnandomi, non posso che ringraziarlo perché tutti gli step sono andati bene, fino ad arrivare davanti alla commissione presieduta da Claudio Baglioni. Ho girato un po’ l’Italia ma alla fine ce l’ho fatta (ride, ndr), È stata un’avventura lunga ma l’ho vissuta bene, bisogna stare attenti anche perché l’agitazione si ripercuote sull’esibizione».
Con quale spirito ti affacci al mercato discografico?
«Molto semplicemente cerco di essere Roberto e basta, mostrando quello che sono, affronto questa esperienza con i piedi per terra, godendomi ogni singolo istante, pronto a raccogliere i frutti del mio lavoro e tutto quello che di buono verrà».
Per concludere, al di là della vittoria e della conseguente possibilità di calcare il palco dell’Ariston, quale sarebbe per te il riconoscimento più importante?
«Sono felicissimo di stare qui e di potermi esibire su questo palco, non potrei desiderare di meglio. L’obiettivo è quello di emozionarmi e, di conseguenza, far emozionare il pubblico, affrontando quest’avventura passo dopo passo».
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Nico Donvito
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