venerdì 27 Dicembre 2024

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“Sanremo Story”, l’Italia del 1951 vista dal Casinò

Sanremo Story: la rubrica che ripercorre le tappe fondamentali del Festival della canzone italiana, attraverso aneddoti e approfondimenti. A cura di Nico Donvito

Per molti il Festival di Sanremo è quell’evento televisivo che catalizza davanti allo schermo per una settimana all’anno, uno spettacolo colorato, uno psicodramma tragicomico collettivo, un carrozzone fiorito stracolmo di cantanti, presentatori e vallette. Negli anni, ne abbiamo lette e sentite parecchie di definizioni, tutte profondamente vere, ma nessuna realmente corretta. Sanremo Italia 1951

Per dare una risposta allo slogan “Perché Sanremo è Sanremo”, è necessario riscoprire la storia di questo grande contenitore che nel tempo si è evoluto, ma senza perdere il proprio spirito. La verità è che il Festival è un vero e proprio fenomeno di costume, la favola musicale più bella di sempre, lo specchio canterino del nostro Paese. Con la sua liturgia, la kermesse non è mai riuscita a mettere d’accordo ammiratori e detrattori, forse in questo alberga la vera fonte del suo duraturo consenso. La rubrica “Sanremo Story” si pone l’obiettivo di raccontare tutto questo e molto altro ancora.

“Sanremo Story”, l’Italia del 1951 vista dal Casinò

Nei giorni che diedero i natali al Festival, il nostro era un Paese affannosamente dedito alla ricostruzione, con le macerie della guerra ancora non del tutto rimosse, sia per le strade delle città più colpite che nella memoria delle persone. In fondo, cinque anni e mezzo erano pochi per cancellare così tanto orrore.

La popolazione stimata era di circa 47 milioni e 300 mila abitanti, la percentuale di analfabetismo viaggiava attorno al 13%, maggiore di quella dei diplomati e dei laureati. Poco meno della metà degli italiani viveva in campagna, gli agricoltori erano soliti spegnere la radio per andare a dormire molto presto. Per cui, quello delle 22.00 era un orario un po’ proibitivo per tanti, anche per questo la prima edizione di Sanremo finì per passare decisamente in sordina.

Ai tempi, un operaio guadagnava dalle 25 alle 30 mila lire, in giro circolavano circa mezzo milione di automobili e un litro di benzina costava 116 lire. Per effetto della deflazione, che aveva colpito la nostra economia durante la guerra, i prezzi dei generi di largo consumo erano nettamente calati. Nonostante questo, la gente faticava ad arrivare alla fine del mese, di conseguenza, manifestazioni e scioperi erano all’ordine del giorno.

Il futuro presidente americano Dwight D. Eisenhower, all’epoca generale ed ex comandante delle truppe alleatedurante il secondo conflitto mondiale, si trovava in visita nel nostro Paese proprio in quel gennaio del 1951, per trattare il riarmo dell’Italia e la sua partecipazione alla Nato. Il Partito Comunista Italiano rispose con violente proteste, in nome del pacifismo e della demilitarizzazione.

Giulio Razzi, primo storico direttore artistico del Festival, si chiedeva se fosse il caso di mandare in onda una gara di canzonette in questo clima di considerevole malcontento. Il direttore generale della radio Salvino Sernesi decise di andare avanti, convinto che i momenti di tensione si potessero placare e sdrammatizzare con la musica, rigorosamente attraverso struggenti brani d’amore. Insomma, l’importante era che i motivi in concorso non parlassero di guerra e di armi, né tantomeno di America.

In questo clima di malcontento e di difficoltà, l’arte cercava di fare la propria parte, con Anna Magnani impegnata a girare a Cinecittà il film Bellissima, diretta da Luchino Visconti, e Alberto Sordi protagonista de Lo sceicco bianco, il primo lungometraggio totalmente girato da Federico Fellini. Se il cinema italiano stava vivendo una stagione davvero irripetibile, anche il mondo della musica si preparava ad altrettanta sconvolgente bellezza.

La mossa vincente fu quella di far concorrere le canzoni tra loro a livello agonistico, proprio come si faceva con lo sport o con Miss Italia, altro concorso che in quegli anni appassionava milioni di italiani. Una specie di campionato della musica che, negli anni, si è trasformato da gara di canzoni a gara di cantanti. Si sa, al pubblico la competizione piace, poiché rappresenta quel tocco di sale e di pepe in più per apprezzare una portata.

Sin dagli albori, l’obiettivo del Festival era quello di svecchiare il repertorio italiano, rendendolo competitivo alla stessa stregua di quello statunitense. Oltreoceano spopolavano i cosiddetti cantanti confidenziali, comune- mente chiamati crooner, ovvero Frank Sinatra, Tony Bennett, Nat King Cole, Dean Martin e Perry Como. Qui da noi si viveva ancora nel mito della canzone napoletana, l’unica che fino a quel momento era riuscita davvero a varcare i confini nazionali, andando a briglia sciolta in giro per il mondo. L’avvento di generi di importazione come lo swing, il soul, il jazz e il boogie-woogie, non aveva fatto altro che spersonalizzare il nostro processo di innovazione. La musica italiana aveva bisogno del giusto slancio per uscire dalla suddivisione regionale in cui, per troppo tempo, era stata relegata.

Fino agli anni cinquanta, il tipico fruitore dei dischi era quasi sempre un adulto. Con l’inizio del nuovo decennio, all’ascolto cominciarono ad approcciarsi anche gli adolescenti, soprattutto grazie alla diffusione del rock ‘n’ roll, lo stile che più entusiasmava i giovani, tanto osteggiato dai genitori che non ne apprezzavano la “rozzezza” e il suono assordante. Chissà gli stessi cosa avrebbero pensato oggi della trap.

Per molti aspetti, la musica italiana a metà del precedente secolo viveva un profondo senso di smemoratezza, che l’aveva portata ad ignorare la cronaca e la realtà per rifugiarsi in situazioni più rassicuranti, in pieno stile Dolce vita. Dopo il ventennio fascista, da una parte si aveva fame e voglia di internazionalità, dall’altra si avvertiva il bisogno di riscoprire l’identità delle proprie radici.

L’Italia degli anni ’50 vista dal Casinò di Sanremo era una nazione intimorita, sconfitta soprattutto moralmente, più che sul campo di battaglia. Un Paese che si appassionava ai buoni sentimenti e si accontentava di canzoni che parlassero di lui che ama lei, di lei che ama lui, di famiglia o della mamma. Forse era soltanto paura di ricominciare, di ipotizzare un nuovo futuro, per questo ci si rifugiava negli ideali dell’anteguerra, nella memoria di ciò che era stato un tempo o, con curiosità, nella cultura di altri popoli. In condizioni di miseria, guardare avanti era un lusso che potevano concedersi su piccola scala solo i benestanti.

In questi termini, il Festival di Sanremo insegnava agli italiani che sognare non costava nulla, che si poteva viaggiare pur restando immobili, che era necessario rompere gli schemi e reagire per lasciarsi definitivamente il passato alle spalle.

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.