6Con quasi dieci anni di ritardo una recensione (non richiesta) del progetto del cantautore toscano
Questa rubrica si intitola “se te lo sei perso”. Nasce dal fatto che, così come gli artisti, anche chi scrive di musica a volte crea delle cose che poi finiscono cestinate, o in qualche cartella nascosta del PC. A volte lì ci devono rimanere, altre invece una piccola chance di emergere la meritano. Queste recensioni sono una rielaborazione di considerazioni passate: rilette, riaggiustate e riproposte in questo piccolo spazio. Questa analisi personale non segue una logica precisa. Non è stata assolutamente richiesta da nessuno e probabilmente non porteranno a nulla dato che si legano a lavori ormai datati. Soprattutto oggi, dove un progetto discografico spesso nasce, cresce e muore in poche ore tra il giovedì e il venerdì, tra i fasti dello streaming e poco altro. Questo è “se te lo sei perso”. Magari uno spazio inutile, magari no.
Nel 2012 la parola “indie” aveva ancora senso. Ce l’aveva perchè nelle radio, in tv e in giro, in generale, il mondo della musica era dominato ancora dai grandi nomi appartenenti al gigante minestrone del cosiddetto pop italiano. Altri tempi, altre classifiche e altre storie. Altri punti di vista in poche parole. Capita però anche che, accendendo la radio o facendo zapping a caso sull’MTV dell’epoca, davanti ti appare un brano che oggi non faticherebbe a far parte della playlist ‘Indie Italia’ di Spotify. Un brano ruvido, quasi grezzo, diretto ma super sincero. Il titolo è ‘Cemento armato’, dove interprete e autore è Il Cile, nome d’arte di Lorenzo Cilembrini, cantautore toscano classe ’81 prodotto da Fabrizio Barbacci (Negrita, Ligabue…). Curioso che il brano sia stato scartato da Sanremo Giovani (si dice addirittura due volte!), luogo dove per altro l’artista tornerà l’anno dopo con un altro bel pezzo.
Ai tempi ero poco più che un adolescente con una vita tutto sommato normale, ma in quel brano colgo un dolore, nelle parole così come nella voce, che mi rende impossibile non immergermici immediatamente. A colpire sono soprattutto le strofe: quattro accordi semplici semplici, suonati da una chitarra acustica a cui viene conferito il potere supremo di strumento portante, che si ripetono per tutto il brano, sui quali il cantautore “sputa” un testo ruvido e denso di immagini che si susseguono l’un l’altra con una forza narrativa incredibile. Si parla di botte, di alcool, di vagabondi alla stazione e di politici visti come iene ghignanti. Il tutto completato dall’incredibile durezza del finale: “dove sei? Mi hai lasciato in un oceano di filo spinato, io ti ho dato prati di viole e tu cemento armato”. Boom.
Le canzoni |
Una bella canzone, specialmente quando solitamente sei un ascoltatore non molto proprio fan della musica italiana, non ti rende da subito ultras di quell’artista, ma probabilmente può spingerti a dare l’occasione anche al disco. Il disco arriva, dopo un po’, ma arriva. Si intitola ‘Siamo morti a vent’anni’: ottimo inizio per uno che sta per compierli, penso. Senza tirarla tanto lunga, che poi sarà comunque lunga, ancora oggi, nonostante una ricerca continua, fatico a trovare un album d’esordio così potente a primo impatto.
Se dovessi descrivere con due parole questo album, direi certamente ‘disagio organizzato’. Un insieme di elementi con un denominatore comune: le cose che si rompono. Gli equilibri, le sane abitudini e, soprattutto, le storie d’amore. Io non so quanto abbia sofferto per amore il buon Lorenzo per comporre questo album (in realtà anche le opere successive non sono da meno), mi piacerebbe chiederglielo, ma è evidente che la sua vena poetica, tra l’ironico e il disperato, sia il frutto di una sensibilità rara e soprattutto di una incredibile capacità di trovare modi originali per descrivere emozioni complesse. Insomma, siamo più o meno tutti capaci di dire: “magari domani impazzisci”. Probabilmente invece non ci verrebbe in mente di dire “magari ti darai ai nuovi dei pagani che studiano il tabù della peggio gioventù, che metodo ignobile di fingersi utili”.
‘Il mio incantesimo’ è una perfetta fotografia di una generazione in bilico fra il baratro e la speranza. Altri pezzi come la stessa title track, ‘La ragazza dell’inferno accanto‘ o ‘Credere alle favole’ sono piccole perle incastonate in un insieme di testi pieni di vita. ‘Tamigi’ ti fa venir voglia di fidanzarti con una ragazza destinata all’erasmus solo per dedicarle questa canzone e per dirle addio. ‘Tu che avrai di più’ riesce a farti mancare anche il primo amore dell’asilo. A stupire sono soprattutto le parole. Il lessico non è quello del “sole, cuore, amore”, ma nemmeno rappresenta un puerile tentativo di voler essere a tutti i costi criptico per avere una bella recensione o per finire sulla bocca di qualche signorino finto alternativo che compra i dischi indie e poi si in macchina si pompa di nascosto l’ultimo di Alessandra Amoroso (che comunque non era così male, intendiamoci).
In conclusione |
Il paradosso è aver cominciato questo articolo parlando di indie (che brutta parola da dire, lo so) e aver parlato di un album che poi, di fatto, è stato pubblicato dalla Universal, ovvero una delle regine fra le potenti major mondiali. Vero, giustissimo, ma altrettanto vero che vedere e sentire ‘Cemento armato’ su MTV, per me, è stato forse uno dei primi veri spaccati tra il classico pop copia incolla e la possibilità di una via parallela. Poi ne sono arrivati altri, anzi tantissimi altri, sicuramente anche con un successo e un riscontro maggiore. Resta il fatto che, ancora oggi, quando mi parlano di album ruvidi, sporchi (in senso assolutamente positivo) e genuini, la mia mente torna sempre incredibilmente a questo lavoro qui.
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