A tu per tu con il noto artista inglese, in uscita con il suo nuovo album intitolato “Quasi una leggenda“
A quattordici anni di distanza dal suo precedente disco solista e quattro anni dal progetto in coppia con Maurizio Vandelli, ritroviamo con piacere Shel Shapiro per parlare di “Quasi una leggenda”, il suo nuovo album di inediti disponibile per Azzurra Music a partire dallo scorso 18 marzo esclusivamente in formato fisico. Settantotto primavere portate con impegno e sfoggiate con ispirazione, due elementi che da sempre contraddistinguono il percorso di un artista a 360 gradi: autore, arrangiatore e produttore, ma anche attore di cinema, tv e teatro. Approfondiamo insieme la sua visione di vita e di musica.
Ciao Shel, benvenuto. Partiamo da “Quasi una leggenda”, a cosa si deve la scelta di questo titolo e come si è sviluppato al processo creativo del progetto?
«In origine l’idea era quella di realizzare uno spettacolo, incentrato sulla mie produzioni e su pezzi di alcune leggende della musica internazionale: da Bob Dylan a Ray Charles, passando per i Beatles e i Rolling Stones. Volevo un titolo che fosse sia umoristico che pretenzioso, per questo ho scelto di aggiungerci il “quasi”, perché le leggende tendono sempre ad essere distese nei cimiteri e credo sia molto meglio sentirsi, per l’appunto, “quasi una leggenda” (ride, ndr). Questo disco è un accumulo di canzoni che nascono dalla stessa fonte, a livello subconscio possiedono lo stesso fil rouge che le tiene tutte insieme. In genere scrivo da solo, ma nell’album ci sono diverse collaborazioni con altri autori, come Riccardo Borghetti, Chiara Peduzzi, Andrea Galli, Gigi De Rienzo, Alberto Salerno e Vincenzo Incenzo. Tutto è stato poi sapientemente rifinito dal produttore Filadelfo Castro».
Un lavoro corredato da un libro di 72 pagine e dagli scatti fotografici di Guido Harari. E’ sicuramente un progetto più ampio rispetto ad un semplice album ma, in un’epoca a tutti gli effetti digitale, a cosa si deve la scelta di pubblicarlo esclusivamente in formato fisico?
«Questo dovresti chiederlo ad Azzurra Music, ma noto questa tendenza soprattutto con gli artisti della mia generazione, penso ad esempio all’ultimo lavoro di Roberto Vecchioni. E’ chiaro che chi ha una certa età è meno abituato a lavorare seguendo le logiche del digitale, da Spotify ad Apple Music, ecc ecc. Credo che queste piattaforme dovranno cambiare prima o poi assetto e impostazione, perché tengono poco conto di una serie di artisti che potrebbero o vorrebbero farne parte. Il fisico esprime ancora un concetto patrimoniale di musica: avere sul tuo telefono le registrazioni di Shel Shapiro non è la stessa cosa del possedere tra le mani un suo disco. Nel caso di “Quasi una leggenda” non sto comprando un’iniezione digitale, bensì un libro con delle pagine che profumano ancora di carta, sto acquistando anche gli scatti di Guido Harari. E’ un insieme di immagini ed emozioni visive».
Le ho trovate davvero delle belle canzoni, che abbinano melodie senza tempo, orecchiabili e cantabili, con sonorità moderne e un linguaggio contemporaneo. La mia preferita resta “La leggenda dell’amore eterno”, ma davvero una canzone così non avevi pensato di proporla a Sanremo?
«In qualche modo credo sia stata fatta sentire, anche se noi puntavamo più su un’altra traccia presente nel disco. Sai, queste cose alla fine sono sempre molto casuali, ma credo anche che chi ascolti i brani sia oggi parecchio influenzato da chi li propone. Se è un nome abbastanza famoso e in tendenza la canzone è forte, non è importante se la musica sia bella o meno. Non a caso, quest’anno al Festival abbiamo sentito sia pezzi interessanti che brani decisamente mediocri».
Queste canzoni sono state scritte in tempi precedenti a quello che stiamo vivendo, ma il potere delle parole sta nel riuscire ad evocare sensazioni e suggestioni. Mi riferisco in modo particolare al singolo “Angeli devastati”, che in qualche modo riflette il nostro attuale status, ma anche alla traccia di apertura “Non dipende da Dio”, perché quello che sta capitando in Ucraina non dipende certo da lui. Qual è il tuo pensiero a riguardo e come stai affrontando questo delicato momento?
«Trovo che sia troppo facile dire cagate su questa storia. Naturalmente quello che sta accadendo è agghiacciante, un segno dell’impreparazione della classe politica che governa questo mondo. I nostri grandi statisti che dovevano guidare l’Europa verso la sicurezza, sono molto meno capaci rispetto a quelli che vendono a parole e con la loro immagine. Quello che sta accadendo in Ucraina è frutto di una serie di valutazioni sbagliate, dell’incapacità nel proiettarsi nei panni dell’altro. Quello che fa Putin in Russia è inammissibile, non c’è nessun piccolo aspetto per cui potergli attribuire anche la minima ragione, ma non c’è dubbio che il resto del mondo non abbia fatto nulla per far sì che questo non potesse accadere. Colpa anche dell’utilizzo massiccio che viene fatto della tecnologia, sia in termini di dialogo che di distacco. Quando dicono che i muri sono stati tutti abbattuti è un’affermazione che non corrisponde alla verità, perché oggi ci sono tante e troppe barriere digitali».
Per concludere, alla luce di quanto ci siamo detti e del tuo importante e longevo impegno artistico: qual è la lezione più importante che senti di aver imparato dalla musica fino ad oggi?
«Beh, una domanda da niente (sorride, ndr). L’unica cosa che mi viene da risponderti è che non bisogna mai credere di aver imparato qualcosa, sarebbe un errore clamoroso pensare di aver capito fino in fondo qualcosa. Anche perché quando capita di pensare di essere arrivati ad una qualche conclusione, arriva sempre qualcosa di nuovo che sconvolge tutte le nostre certezze. Questo ci fa capire che non esistono delle regole e che non c’è una sola strada, ma che ci sono centomila possibilità e variazioni sul tema. Bisogna saper mantenere l’umiltà di ascoltare il prossimo, soprattutto quando ti trovi in completo disaccordo».
© foto di Guido Harari
Nico Donvito
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