A tu per tu con il musicista milanese, storico tastierista dei Decibel in uscita con l’album piano solo
Una piacevole chiacchierata quella realizzata con Silvio Capeccia, in occasione dell’uscita di “Silvio Capeccia plays Decibel – Piano solo”, disco che raccoglie le canzoni più rappresentative della band di cui ne rappresenta lo storico tastierista, nonché fondatore insieme a Fulvio Muzio ed Enrico Ruggeri. Tredici tracce in scaletta che ripercorrono quarant’anni di vita e di musica, da “Contessa” a “Noblesse oblige”, passando per “Vivo da re”, “L’ultima donna”, “Crudele poesia” e molte altre ancora.
Ciao Silvio, benvenuto. Come nasce l’idea di questo progetto e come è avvenuta la selezione delle tredici tracce in scaletta?
«Come nascono tante idee di questi tempi, vale a dire tramite i social. Non ho più vent’anni, ahimè, quindi mi spiace dovermi inchinare allo strapotere delle piattaforme, però così è stato. Durante il Covid, come altri colleghi musicisti e artisti, abbiamo pensato di registrare dei video homemade con dei nostri brani, registrati solo al pianoforte. Il riscontro è stato tale che da lì, con Enrico, ci è venuta l’idea di realizzare un disco con i brani storici dei Decibel in versione solo piano. Alcuni brani sono nati in origine così, ad esempio “Contessa” era nata per due pianoforti, su altri la rilettura è stata più difficile, perché quando si passa da un sintetizzatore ad un pianoforte si cambia totalmente modo di vedere le cose, tutto assume una dimensione diversa».
Quale immagini possa essere la reazione del vostro pubblico, abituato a sentire questi brani in atmosfere un pochino più strong?
«Mi attendo comunque delle reazioni, spero il più possibile postime, ma questo non è un lavoro che può passare inosservato. E’ sicuramente un approccio stimolante, lo è stato per me e mi auguro lo sia anche per i nostri estimatori. Ci tengo a dirlo, non sono un pianista di estrazione classica, la mia maniera di suonare è molto ruvida, chiaramente per proporre un lavoro del genere sono dovuto andare a pescare nella mia anima classica inconscia. Amo moltissimo Einaudi e Allevi, ma il mio è un approccio completamente diverso, stiamo parlando di brani nati punk-rock, che sono stati trasposti per pianoforte».
Insieme ai Decibel hai partecipato a due edizioni del Festival di Sanremo, nel 1980 con “Contessa” e nel 2018 con “Lettera dal Duca”. Due epoche completamente diverse, ci racconti come hai vissuto dal punto di vista personale entrambe le esperienze?
«Tra la prima partecipazione e l’ultima è cambiato il mondo, a partire dall’approccio nei confronti di Sanremo, nel 1980 del Festival veniva trasmesso in tv soltanto la serata finale, con una sintesi delle prime due puntate. E’ cambiato veramente tutto, partecipare oggi alla manifestazione offre una popolarità immediata, un po’ come accade con i talent o altre situazioni del genere, una grande visibilità che tende successivamente a sgonfiarsi. Sono proprio due approcci diversi alla musica, all’epoca era normale avere una gavetta molto più lunga».
A proposito di gavetta, nel ’72 tra i banchi del liceo fondate gli Champagne Molotov, avevate appena quindici anni. Quanto è stato importante per voi quel tipo di esperienza e quanto pensi incida negativamente oggi la mancanza di musica nelle scuole?
«E’ una domanda interessante su cui potremmo stare a parlarne per tutto il pomeriggio, volendo sintetizzare: quel tipo di esperienza è stata per noi fondamentale, senza le scuole non saremmo mai emersi né come Champagne Molotov né come Decibel, perché lì ti fai veramente le ossa, un’esperienza di palco reale, senza nastri preregistrati, con le varie problematiche tecniche. Tutto questo ci ha aiutato molto, perché quando abbiamo ottenuto il contratto con la prima etichetta discografica, è stato abbastanza semplice per noi iniziare delle tournée e avere esperienze di alto livello. Oggi tutto questo non c’è, ci si trova proiettati da un talent alla popolarità assoluta, alcuni riescono ad emergere, tanti altri hanno bisogno dello psicanalista, perché passare dal successo al dimenticatoio nel giro di pochi mesi, per un ragazzo di vent’anni può essere un vero e proprio trauma interiore».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di attività?
«Dunque, io suono da cinquant’anni diciamo, la musica per me è una compagna di vita. Mi piace sempre citare una frase di David Byrne, grande leader dei Talking Heads, il quale ha come suo motto: “la musica ha in se stesso la sua ricompensa”, non bisogna ricercare nel suonare un appagamento economico, quello può arrivare o meno, il beneficio che la musica da a noi stecca ce la regala in quanto tale. Ho spesato questa filosofia di vita e la estendo a tutti quanti: la musica è un beneficio per noi stessi».
Nico Donvito
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