sabato 2 Novembre 2024

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Simona Molinari: l’amore ai tempi del “Maldamore” – INTERVISTA

A tu per tu con l’artista che ha unito il pop a generi più ricercati come il jazz e lo swing, in un mix convincente che da sempre contraddistingue il suo stile musicale

Simona Molinari Che cos’è l’amore? Ce lo siamo chiesti mille volte, ma una risposta l’ha provata a dare Simona Molinari tra le righe del suo nuovo singolo Maldamore, composto a quattro mani con Amara, preludio del suo sesto progetto discografico.

Ciao Simona, partiamo da “Maldamore”, com’è nato e cosa rappresenta per te?

«Questo brano arriva in un momento molto particolare in cui mi sento “nel mezzo del cammin della mia vita” e parla di una sorta di presa di coscienza, mi sono chiesta quante volte ho chiamato amore un qualcosa che in realtà era altro, ossia tutte quelle emozioni che ti fanno sentire vivo e ti danno adrenalina, come la gelosia, il senso di possessione, la malinconia. Oggi, invece, ho capito che la parola amore ha un significato diverso e rappresenta il superamento di tutti questi ostacoli, che definisco mal d’amore».

Una canzone scritta a quattro mani con Amara, un sodalizio tutto al femminile che prosegue dopo il vostro bellissimo duetto sulle note di “C’è tempo” di Ivano Fossati. Pensi sia ancora differente, oggi, il modo di intendere l’amore per gli uomini e le donne? Non credi che i ruoli si siano un po’ invertiti?

«Hai detto bene, nella stragrande maggioranza dei casi credo sia così, l’ideale sarebbe che i ruoli venissero parificati, o per lo meno resi intercambiabili. Poi, sai, secondo me si tratta sempre di fasi di passaggio, la società cambia così velocemente e tende sempre a mutare nei rapporti. Da grande romantica quale solo, immagino un futuro più coeso, dove gli uomini e le donne riescono ad intendere l’amore nello stesso modo. Di fatto la natura delle cose ci porta ed essere differentii, l’uomo una testa diversa rispetto alla donna, come ogni persona d’altronde. Ecco, mi piacerebbe che le differenze caratteriali cominciassero ad essere notate senza badare al sesso di un individuo, altrimenti si rischierebbe di sfociare nel luogo comune».

Nel testo citi i vari innamorati della storia della musica leggera italiana…

«Si, da Gianna che sosteneva tesi e illusioni a Piero che amava la sua guerra e i suoi ideali, quindi l’amore inteso in senso lato, oppure Anna che aveva Marco che poi se n’è andato via, a me piaceva Luca ma Luca era gay, insomma, tutte situazioni che tendiamo a chiamare amore ma in realtà rappresentano l’anticamera di questo sentimento che, per un motivo o per un altro, non si è ancora concretizzato. L’amore passionale e romantico, quello raccontato da tutti gli scrittori del mondo, spesso e volentieri, è solo un senso di desiderio misto a malinconia per non riuscire ad essere contraccambiati».

Infatti, riflettendoci, si parte dall’amore platonico di “Gianna” fino ad arrivare a quello, passami il termine, un pochino “ambiguo” di “Luca era gay”. Negli anni, c’è stata una forte evoluzione nel trattare l’amore nelle canzoni…

«Esatto, a tutti i livelli. L’amore ha talmente tante sfaccettature diverse che abbraccia e rappresenta ogni tipo di stato d’animo, trovo bello che venga raccontato da tanti punti di vista, non solo dal mio, e così viene fatto da sempre visto che è il tema più utilizzato in musica e nell’arte in generale. Nonostante questa sorta di abuso, diciamo, c’è sempre qualcosa di nuovo da dire, per questo motivo lo trovo un argomento interessante e sempre affascinante».

Cosa hai voluto trasmettere attraverso le immagini del videoclip diretto da Massimo Molinari?

«Abbiamo scelto come location un manicomio e come protagonista ci sono io legata ad una camicia di forza, per descrivere al meglio la sensazione opprimente del mal d’amore. Ad un certo punto mi libero di tutte le mie zavorre mentali e comincio a ballare insieme alle mie frustrazioni, riuscendo ad uscire da questo postaccio e a riscoprire la luce del sole, ossia il senso di bellezza rappresentato dal vero amore».

L’anno prossimo, cara Simona, festeggi il tuo decennale di carriera, ossia dal primo disco “Egocentrica”, qual è il tuo personale bilancio?

«Assolutamente ottimo, nel mio ambito e per il genere che ho scelto di fare, devo ammettere di essere riuscita a realizzare tutto il desiderabile, calcando i palchi più importanti e partecipando ai festival più ambiti, in riferimento ai circuiti jazz non potevo chiedere di meglio. Sento di aver costruito qualcosa ed è un motivo di grande soddisfazione, adesso bisogna tornare a sognare realizzando nuovi progetti».

Ti va di ripercorrere brevemente la tua carriera? L’ho suddivisa in cinque parti, proprio come il numero dei tuoi dischi. Partiamo da “Egocentrica” e il tuo debutto a Sanremo tra le nuove proposte nel 2009…

«Ricordo l’incoscienza, la voglia di dire e di fare, una carica incredibile e tanti, tantissimi, sogni nel cassetto. Il Festival è stato il primo desidero avverato, la vetrina migliore per farsi conoscere, che ha rappresentato per me la spinta e lo slancio per continuare a credere sempre di più in me stessa e in questo progetto».

L’anno seguente nel 2010 arriva “Croce e delizia”, trascinato dal duetto “Amore a prima vista” con Ornella Vanoni…

«Un periodo un po’ più intimista, un disco dove tiro fuori la mia interiorità, un lavoro orientato più verso il jazz. Al suo interno ci sono pezzi di cui vado molto fiera, riascoltandolo oggi lo considero un album a metà strada tra lo swing e il pop, un ibrido, non sapevo bene da quale parte andare e soprattutto come poter fondere al meglio questi mondi apparentemente così distanti».

Beh, ci sei riuscita alla perfezione con il terzo album “Tua”, pubblicato nel 2011…

«Eh si, ho trovato la chiave e sono riuscita a riprodurre il suono che volevo dare alle mie canzoni, il filo conduttore, il timbro, chiamiamolo come vogliamo. Mi sono divertita parecchio, poi sicuramente la mia prima collaborazione con Peter Cincotti mi ha dato tantissimo».

Preludio del tuo quarto progetto “Dr Jekyll Mr Hyde” del 2013, che coincide con il tuo ritorno sul palco dell’Ariston con “La felicità”, il tuo brano di maggior successo…

«La felicità di nome di fatto, un altro periodo fantastico e un disco che contiene un pezzo firmato da Lelio Luttazzi e un importante duetto con Gilberto Gil. Come il precedente album, anche qui mi sono trovata perfettamente a mio agio, sentivo di aver trovato la mia cifra stilistica».

Nel 2015, infine, arriva il quinto disco “Casa mia”, composto da dieci cover eseguite in inglese…

«Si, un ritorno al classico, a casa mia per l’appunto, a tutto ciò che ha fatto parte della mia formazione. Nei quattro album precedenti mi sono destreggiata in veste di autrice e compositrice, sentivo di aver detto tutto quello che c’era da dire, almeno fino a quel momento, avevo paura di ripetermi e ho preferito rispolverare il mio lato da interprete».

Arrivando al presente, con “Maldamore” sei tornata a scrivere e attualmente stai preparando il tuo prossimo disco. Quando è prevista l’uscita e cosa dobbiamo aspettarci da questo nuovo lavoro?

«Stiamo facendo il possibile per farlo uscire per fine maggio. Rispetto al passato vorrei tirar fuori la mia anima più sanguigna, più istintiva, di pancia, soprattutto nei testi. Cerco volutamente di affiancarmi ad autori emergenti, o importanti come Amara, che siano più crudi di me, inteso come semplicità e verità delle parole, in modo far emergere aspetti inediti che, per via della mia personalità, faccio fatica a tirar fuori da sola».

Dal mio punto di vista avere uno stile, essere riconoscibili è un grande vantaggio. Sin dalla tua prima canzone hai dimostrato una certa unicità, almeno per quello che siamo abituati ad ascoltare in Italia. Tu questo lo sai, ne sei consapevole, ma hai mai pensato di cambiare? Come magari hanno fatto altri tuoi colleghi…

«Sinceramente no, nel senso che posso sperimentare e continuerò in futuro a contaminare la mia musica, ma le sonorità e gli arrangiamenti, che credo rappresentino il mio tratto distintivo, rimarranno quelli. Certo non mi viene facile con le ballad, perché è un genere che si presta molto nelle cose più ritmate, se vogliamo molto radiofoniche, mentre nei brani più intimisti devo ancora riuscire a trovate una mia forma, perché nel cassetto ho anche dei pezzi più profondi e sto cercando la giusta chiave di lettura per propormi anche in questa veste, senza snaturare il mio suono».

Alla luce di tutto quello che ci siamo detti, per concludere, quale messaggio vorresti lanciare, oggi, attraverso la tua musica?

«Che ognuno possa intendere l’amore come meglio crede, senza retorica e senza costrizioni, che si liberi di tutti i suoi fantasmi e possa amare innanzitutto se stesso, per poter darsi all’altra persona nel modo migliore possibile».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.