Le nuove generazioni hanno tutto e subito senza maturare l’esperienza necessaria per affrontare gli ostacoli che possano presentarsi? E’ quanto si evince da una lunga intervista che il il duo ha rilasciato a Rockol. I fratelli Luca e Paolo hanno 42 e 37 anni, sette album in studio all’attivo, venerdì 29 marzo hanno dato il via dalla loro città natale al tour nei club che li vedrà esibirsi per tutto aprile sui palchi dei club italiani, da Firenze a Pistoia, passando per Roma, Torino, Reggio Emilia e Milano. E c’è un nuovo singolo, “Ovunque andrai io ci sarò”: è una cover in italiano di “Wherever you Will go” dei The Calling cantata insieme ad Alex Band, il frontman delle meteore californiane da 20 milioni di copie vendute in tutto il mondo nel 2002.di seguito quanto dichiarato al portale :
“Nel corso degli anni abbiamo avuto la fortuna di avere un contatto con il nostro pubblico particolare con il nostro pubblico, che ci è rimasto fedele. Questa è una cosa che si è persa nelle nuove generazioni: avere una fanbase che dura negli anni”
Non si esce vivi dagli Anni Duemila, verrebbe da dire.
“(Ridono, ndr). A dirlo oggi sembrerebbe di no”.
E all’epoca, invece?
“Non ci rendevamo conto di quello che stavamo facendo. Gli Anni Duemila sono i nuovi Anni Ottanta: chi li ha vissuti, non aveva la percezione di far parte di un decennio destinato a diventare uno dei più iconici della cultura pop. È una cosa importante: significa che gli Anni Duemila hanno lasciato un segno più profondo di quanto si pensi”.
Dove lo avete trovato Alex Band?
“Negli scorsi mesi abbiamo pubblicato sui nostri social una serie di video di cover di brani che hanno accompagnato la nostra crescita, tutti raccolti sotto un format vero e proprio chiamato Civico 6. Tra queste, oltre alle hit dei Rasmus, dei Blue e dei Backstreet Boys, c’era anche quella di ‘Wherever you Will go’. Una nostra fan in contatto con i Calling ha fatto avere ad Alex il nostro video. Abbiamo cominciato a parlare su Instagram: il duetto è nato così, senza discografici o manager. Celebriamo il revival del pop degli Anni Duemila”.
Come ve lo spiegate il ritorno di quei suoni e di quelle atmosfere?
“Ha a che fare con la nostalgia della nostra generazione per quegli anni. A 40 anni fatichiamo a rispecchiarci in quello che passano oggi le radio”.
“Il medium pop mi pare svilito. Vedere gente tutta tatuata che va su un palco a cantare la ‘Disco paradise’ di turno mi fa tristezza. Quelle sono marchette”, ha detto Paolo Meneguzzi, altro grande protagonista del pop tricolore degli Anni Duemila. La pensate come lui?
“Ci teniamo lontani dalle polemiche. Ognuno deve essere libero di fare la musica che vuole. Però è oggettivo il fatto che oggi sia difficile trovare degli spazi nel pop mainstream se non si seguono certi canoni”.
È vero che avevate provato a giocarvi la carta Sanremo?
“Come tutti. È una vetrina importantissima. E poi quel palco ci ha dato tanto. Prima o poi, ci piacerebbe tornarci. Il fatto è che ci sono troppi artisti e pochi spazi, al giorno d’oggi”.
Il mercato musicale è saturo?
“Sì. Si consuma tutto velocemente. La colpa non è degli artisti, ma di come è cambiata l’industria in questi anni. Si fatica a consolidare un pubblico: è l’effetto bambola nuova che sostituisce quella uscita l’anno prima, perché magari ha più accessori ed è più figa”.
Che consiglio sentite di dare a Sangiovanni, che ha deciso di fermarsi, bruciato dal successo e dal peso delle aspettative?
“È irrealistico pensare che un artista debba sempre stare in prima linea sul mercato ed essere sempre al top, senza mai conoscere una inevitabile flessione del successo. Alle nuove generazioni manca la gavetta: vengono portati dal giorno alla notte in tv. Suonare per dieci anni nei piccoli locali di provincia ti forma come artista e come persona: ti dà la forza di parare dei colpi, quando arrivano. Noi dopo Sanremo e l’esposizione internazionale tornammo a suonare nei piccoli club, suonando folk e blues”.
Esposizione internazionale?
“Sì. Nel 2009 andammo in Sud America: aprimmo quattro concerti di Enrique Iglesias e facemmo un tour (il singolo ‘Love Show’ nel 2008, ricorda Wikipedia, scalò le classifiche iTunes di Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Messico, andando al primo posto in Costa Rica, ndr). Non abbiamo mai perso la passione: preparare i tour, andare sul palco, tornare in studio e scrivere è qualcosa di impagabile”.
Vi siete mai sentiti trattati come un gruppo che faceva roba di serie b, se non di serie c?
“Eccome. Soprattutto da parte degli addetti ai lavori, ai quali ancora oggi è molto difficile far arrivare realmente quello che abbiamo fatto. Le radio non ci hanno mai passato”.
Come mai tanto snobismo nei vostri confronti?
“Perché eravamo percepiti come un prodotto da ragazzine, dal momento che eravamo usciti da un contesto mainstream. Venivamo catalogati come una boy band, ma non lo eravamo. Non si considerava quello che c’era stato prima di Sanremo e di Mtv e non ci si soffermava su quello che producevamo come gruppo. Alla fine è quello che è successo, ad esempio, anche ai Duran Duran, tornando agli Anni ’80. La cosa più bizzarra? Che oggi sotto ai nostri palchi non ci sono solo le ex ragazzine dell’epoca, ma anche ragazzi”.
Giuseppe Scuccimarri
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