Le dichiarazioni del CEO di Spotify sono la dimostrazione che la musica è sempre più mercato (e numeri) e sempre meno arte
Sono anni frenetici di un periodo frenetico. È strano pensarlo ora ma si narra che una volta addirittura si potesse acquistare un CD, sedersi ed ascoltarlo dall’inizio alla fine e che le canzoni durassero anche più di tre minuti, a volte anche con tre strofe.
Intendiamoci, questo articolo non vuole essere una ricerca scientifica accurata e sicuramente generalizzerà su un tema complesso e contorto. La musica, che per sua natura è astratta e libera, ha subito negli ultimi tempi una trasformazione che l’ha resa semplicemente un tassello sbiadito della filiera di un mercato incerto. Non tutta certo, c’è chi lavora per l’arte e chi l’arte la produce senza pensare a nessuna logica, c’è chi è libero davvero o chi libero ci si sente in qualche modo, ma questo conta poco perché qui si parla della maggioranza.
Quello che conta è che l’industria musicale, se prima poteva essere vista come un gigantesco e spietato tritacarne, oggi si è trasformata in un allevamento intensivo dove produrre di più sembra l’unica via e tutto quello che viene prodotto, seppur venduto come differente ed unico, altro non è che la stessa carne trita e ritrita che si differenzia solo dalla copertina (e spesso nemmeno da quella). E così le parole del CEO di Spotify Daniel Ek, che ha affermato in un’intervista che la musica altro non è che “un prodotto che deve uscire regolarmente e che non è pensabile per un’artista oggi uscire con un disco ogni 3-4 anni”, non rappresentano un fulmine a ciel sereno ma semplicemente una spiegazione netta e chiara di cosa oggi è l’industria musicale.
‘I dischi non si vendono, quindi perché dovrei farli?’, potrebbe pensare un’artista oggi. Molto più semplice puntare su una serie infinita di singoli da mettere insieme, sperando di “beccare” la hit capace di rimanere del tempo in testa alle classifiche digitali di streaming. ‘Del tempo’ non ‘nel tempo’. Non più album, ma brevi playlist di brani sconnessi, tanto poi l’ascoltatore cosa fa? Riproduce, aspetta 30 secondi (magari anche meno…), preleva il brano e lo inserisce in qualche playlist, ricontestualizzandolo e di fatto distruggendo il concetto di narrazione che esiste all’interno della concezione di “album”.
Tutto questo senza dimenticare le difficoltà per un artista emergente di potersi imporre all’interno del mercato: se è vero che oggi, di fatto, chiunque con una spesa minima ha la possibilità di proporsi con un prodotto qualitativamente valido, è altrettanto innegabile che la vita di un nuovo artista è sempre più corta. La sovrapproduzione e nemmeno talent show o altri tipi di scorciatoie riescono oggi a tamponare il problema dato che anche su quel versante le cose sembrano calare drasticamente sotto tutti i punti di vista, sia come esposizione che come “sopravvivenza post”.
Insomma, se sei un’artista oggi il tuo compito è cercare di “colpire” l’ascoltatore in sempre meno tempo, per questo le canzoni diventano sempre più brevi, le intro quasi inesistenti e i titoli corti e spesso in CAPS LOCK, così da risultare ancora di più evidenti. Racimolare numeri, numeri e ancora numeri da vendere come certificato di qualità, anche se poi nell’effettivo abbastanza inutili dal punto di vista del guadagno.
Il punto è: fino a dove si può spingere questa macchina? Quanto il mercato può reggere e quanto il concetto di arte può resistere prima del suo abbattimento definitivo in nome di un mercato sempre più frenetico? Oppure abbiamo perso già da tempo questo privilegio, spazzato via dal totale appiattimento delle proposte e dell’uniformarsi dei cosiddetti “nuovi media”?
Noi non viviamo nelle favole e sappiamo tutti benissimo che la musica è lavoro e business, che dà da mangiare a tante persone come fa ogni lavoro nel mondo, però della musica siamo anche innamorati e continuiamo schierarci a favore di chi ha coraggio di creare puntando su qualcosa che resti e non sia semplicemente un prodotto “usa e getta”, anche a costo di smentire i grandi colossi…
Giuseppe Currado
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