venerdì 11 Ottobre 2024

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Stanley Rubik: “Molto spesso l’immagine parla più delle parole” – INTERVISTA

A tu per tu con la band romana, disponibile negli store con il loro nuovo album “Tuttoècomesembra”

Tempo di nuova musica per gli Stanley Rubik, gruppo musicale di Roma composto dal cantante e bassista Dario Di Gennaro, il chitarrista Gianluca Ferranti e il batterista Andrea Bonomi Savignon. “Tuttoècomesembra” è il titolo del loro ultimo progetto discografico, contenete dieci brani inediti, pubblicato lo scorso gennaio. Approfondiamo la loro conoscenza.

Ciao ragazzi, partiamo dal vostro ultimo album “Tuttoècomesembra”, cosa rappresenta per voi questo progetto?

«Il discorso generico che accomuna un po’ i nostri tre pensieri è che siamo arrivati ad un punto sociale in cui l’immagine, molto spesso, parla più delle parole. Che sia vero o meno, distinguere la realtà da quello che è un nostro pensiero diventa poi difficile, per cui “Tuttoècomesembra” esprime la nostra conclusione sul fatto che tutto ciò che appare vada preso come vero, con tutte le maschere che ognuno di noi può o meno decidere di utilizzare».

In una società fondata sull’apparenza e non più sulla sostanza, la musica che ruolo gioca?

«Il condizionale è d’obbligo, la musica giocherebbe un ruolo fondamentale, in realtà si è assuefatta al meccanismo, per puro spirito di sopravvivenza, adattandosi alle regole imposte dall’attuale società. Ci sono tanti artisti che decidono di fare una crociata contro il sistema ma che poi, puntualmente, ci ripensano una volta entrati a contatto con questo meccanismo. Chi più chi meno, siamo un po’ tutti soggettati dal mercato ed è un vero peccato, perché una volta la musica aveva un ruolo di riflessione e di ribellione, entrava in contrasto con la società, oggi i temi si sono decisamente più ammorbiditi».

Quali tematiche e quali sonorità avete voluto abbracciare?

«Per quanto riguarda gli argomenti, quasi tutti i brani parlano di un distacco, che sia verso una persona o verso se stessi in maniera interiore. Dal punto di vista musicale abbiamo voluto abbracciare sonorità elettroniche, discostandoci dalla formazione tradizionale rock. Basso, chitarra e batteria non esistono più per come li conosciamo, si sono aggiunti elementi nuovi, più effettistica e più atmosfera».

Come vi siete conosciuti e quando avete deciso di dare vita al vostro progetto musicale?

«Il progetto risale al 2012, Dario e Gianluca si sono conosciuti sul posto di lavoro, come guide in un museo scientifico per ragazzi. Chiacchierando abbiamo dato vita a questo gruppo, tirando dentro anche Andrea, con cui avevamo già suonato. Abbiamo cominciato a fare nuova musica insieme, siamo entrati nell’etichetta Cose Comuni dei Velvet e poi siamo passati alla INRI in un secondo momento. Fatto in breve, questo è un po’ il bignami della nostra storia».

Con quale spirito vi affacciate al mercato e come valutate l’attuale settore discografico?

«Questa è una domandaccia (ridono, ndr), lo spirito è abbastanza deluso e sconfortato, perché stiamo notando che non c’è un cambiamento ed è assurdo perché viviamo in un’epoca dove c’è tutto e di più, basta aprire YouTube per scoprire il gruppo cinese più allucinante di sempre dall’altra parte del pianeta, paradossalmente c’è una globalizzazione allucinante, tutti tendono ad imitarsi, al punto da canalizzare l’attenzione in un unico genere, vedi la trap o l’indie. E’ impossibile che vengano spinti così pochi generi quando abbiamo a disposizione con il web una vetrina talmente grande, per cui se non segui quei filoni hai delle serie difficoltà ad infilarti. Se una volta c’era attenzione nella ricerca, nel nuovo e nel diverso, oggi come oggi è più accomodante seguire le tendenze del momento».

Come se la sta passando il rock di questi tempi?

«Il rock è morto, almeno per come lo intendevamo, sicuramente è  qualcosa di diverso. Purtroppo l’Italia è un po’ lenta ad abituarsi al cambiamento, ci mette un po’ e fa fatica, personalmente abbiamo trovato in Achille Lauro la proposta più interessante dell’ultimo Festival di Sanremo, né più nè meno ha trasmesso lo stesso impatto di Vasco Rossi nei suoi esordi. Sembrerebbe una bestemmia, ma anche a livello di marketing è stato geniale, in più la musica è una storia che si ripete, anche se è sicuramente un meccanismo studiato e non esiste più spontaneità nell’effetto-sorpresa».

Parliamo della vostra attività dal vivo, quanto conta per voi la dimensione live?

«Diciamo che è la cosa più importante, in realtà tutto il nostro progetto punta sulla prospettiva live. Per noi fare un’apertura ai Marlene Kuntz o trovare delle buone date in giro per l’Italia è tutto, vendere il disco è diventato secondario visti i tempi che corrono. Siamo tanti, il mercato è saturo, per cui emergere anche attraverso le varie mosse di marketing non è più così semplice, uscire solo dal punto di vista virtuale tramite i follower non ci interessa, il nostro obiettivo è arrivare alle persone attraverso il sudore del palco».

In un’epoca fondata sull’immagine, a cosa si deve la scelta di mascherarvi quando salite sul palco?

«E’ stata una scelta fatta ad hoc per il disco, maschera per maschera abbiamo deciso di camuffarci. A livello emotivo, avere il viso coperto ti aiuta un po’, un modo di nasconderti che ti permette di puntare il dito su più cose e mettere a nudo chi sei veramente. Sicuramente c’è un aspetto legato anche all’immagine, ma non solo perché ha una sua forte importanza anche dal punto di vista interiore».

Quali sono i vostri prossimi obiettivi professionali?

«E’ una domanda difficile, visto quanto abbiamo appena detto sul mercato musicale, ci stiamo mettendo in discussione per l’ennesima volta, ma siamo abituati perché lo facciamo per tutti i dischi che realizziamo. Stiamo cercando di capire quale sarà il futuro degli Stanley Rubik, lo diciamo apertamente, è tempo di pensare a quella che sarà la nostra nuova direzione, riflettendo sul fatto che quello che abbiamo realizzato finora funzioni o meno. Il mondo della comunicazione diventa sempre più complesso, farsi capire dagli altri non è facile, oggi come oggi la genialità sta nel riuscire ad essere alla portata di tutti».

Per concludere, dove e a chi desiderate arrivare con la vostra musica?

«A chi… ci piacerebbe più che altro arrivare a tutti, anche se capiamo che i nostri contenuti sono alquanto semplici per una risposta immediata e globale del pubblico. Dove… chissà, in realtà stiamo cercando di creare un percorso tutto nostro, abbiamo cominciato a prendere una direzione nuova e, di questo, ne siamo davvero orgogliosi».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.