“Siamo un Paese che invecchia, abbiamo bisogno di nuovi cittadini” questo il fulcro di quanto detto da Max e Samuel Casacci dei Subsonica durante una intervista rilasciata a L’Espresso. Tra le tante cose il disappunto di vivere in un’epoca dominata dai social in cui loro cercano di imprimere la propria cifra stilistica sperimentando nuovi linguaggi musicali Tutto ciò è racchiuso in “Realtà aumentata”, il loro decimo album, che farà da apripista al tour. Di seguito quanto hanno dichiarato al settimanale :
A breve partirà il nuovo tour dei Subsonica. Qualche tempo fa siete arrivati a un passo dalla rottura, qual è oggi il vostro stato d’animo?
Samuel:
“È un po’ come veder nascere un figlio, arriva il momento in cui devi aiutarlo ad andare per il mondo. Siamo in quella fase lì, prendiamo i brani che abbiamo assemblato e diamo loro la possibilità di muoversi. Passando dal disco al live, come sempre le canzoni subiscono piccole modifiche per arrivare al petto delle persone”.
Nell’album “Realtà aumentata” e nel nuovo EP dedicato alla canzone “Universo” avete allargato i vostri confini musicali alla videoarte. Dove porta questa strada?
Max Casacci:
“Siamo figli della generazione degli anni Novanta, quando la musica sposa le immagini. Fin dall’inizio abbiamo cercato di cogliere le sfumature di questa transizione, evitando di fare videoclip solo perché tutti li facevano. Abbiamo sempre coinvolto artisti di peso, lasciandoli liberi di associare il loro mondo al nostro. Di recente, ad esempio, abbiamo lavorato con Donato Sansone che è un artista, non un regista di videoclip. E poi collaboriamo con gli High Files, una giovane crew di Torino che cura l’aspetto visivo del nostro live”.
Nelle vostre canzoni il tema del tempo è ricorrente, così come la nostalgia del passato. Nella canzone “Africa su Marte”, ad esempio, raccontate la scomparsa dell’utopia, il movimento del retrofuturismo, la gara tra Usa e Urss per la conquista dello spazio…
M.C.: “Quando hai quasi trent’anni di storia il passato può aggiungere in termini di autorevolezza ma può essere anche ingombrante. Per liberarci da questa potenziale zavorra abbiamo riprodotto le condizioni che hanno consentito alla nostra musica di nascere. Le nostre esperienze in solitaria sono servite per misurarci, ma da soli abbiamo un peso specifico decisamente meno autorevole rispetto a noi come band”.
Il tema del tempo torna anche nel brano “Pugno di sabbia”: parla di un’Italia appesantita dal passato, che nega spazio ai nuovi italiani. «Qui c’è un passato che non passa mai/Ed un futuro che non troverai/ Non è quel pugno di sabbia, pieno di rabbia, pieno di te», recita il testo.
M.C.: “In questo album abbiamo cercato di fare una sintesi dell’Italia che abbiamo intorno diversa da quella che può fare un ragazzo di vent’anni. Tra le altre cose, raccontiamo come un italiano di nuova generazione sia ostacolato nel definire la propria identità perché una certa ideologia del passato grava sulla sua vita. Siamo un Paese che invecchia, abbiamo bisogno di nuovi cittadini, anche perché nessuno pagherà i nostri conti. Ma non ce ne rendiamo conto”.
Un’altra canzone dell’album, “Nessuna colpa”, sembra in linea con la vostra storia perché denuncia il potere che si autoassolve. «Se l’aria brucia e il mondo non sa respirare/ Se per la dignità si torna anche a morire/ Negare sempre tutto un’ultima volta/ Nessuna colpa, nessuna colpa». Come è nata?
S.: “È uscita da un mio taccuino di appunti, che ho riportato nello studio di registrazione come punto di partenza per costruire la canzone. Alla fine della lavorazione ero il più scettico su questo brano, lo vedevo come il più “subsonico” dell’album. Rispetto ai miei colleghi tendo a rompere i legami con il passato più facilmente, o anche più stupidamente, in maniera leggera. E invece loro con grande abilità mi hanno convinto che fosse una canzone importante per il disco perché ha una matrice sonora tipica dei Subsonica. Detto questo, “Nessuna colpa” può sembrare un atto d’accusa ma in realtà è una presa di coscienza. Parla di un movimento epocale di esseri umani: è sempre accaduto ma in questi ultimi anni si sta facendo più drammatico. Ci siamo abituati ad assistere a questo spettacolo terrificante seduti in poltrona”.
Nel tour vi raggiungeranno sul palco diversi artisti tra cui due torinesi doc, Willie Peyote e Ensi. Tra le tante collaborazioni nel corso della storia dei Subsonica, qual è stata la più rocambolesca?
S.: “Credo che la storia più strana sia stata quella volta che io e Max (Casacci, ndr) stavamo lavorando in studio: verso le otto chiudiamo per andare a cena e cominciare la nostra giornata, quando vediamo arrivare Boosta (un altro musicista della band, ndr) e Morgan, che poi si fermano tutta la notte in studio da Max, all’epoca Sonica in piazza Vittorio. Io e Max facciamo la nostra serata in giro ai Murazzi, in una Torino che all’epoca era molto radiosa e potente. Poi andiamo a dormire e il giorno seguente ci alziamo sul tardi, era il weekend. Torniamo in studio per finire le cose che stavano facendo e troviamo Boosta e Morgan ancora impegnati nella scrittura della canzone “Discolabirinto”, non avevano chiuso occhio. È stata una delle cose più rocambolesche della storia dei Subsonica, ma un giorno te la dovresti far raccontare nel dettaglio da Boosta”.
M.C.: “Dal mio punto di vista la collaborazione più rocambolesca è stata quella con Michelangelo Pistoletto per l’ultima traccia dell’album “Una nave in una foresta”, che abbiamo deciso di far sposare con il suo “Terzo Paradiso”. Abbiamo realizzato quello che, a detta sua, è l’inno del “Terzo Paradiso”, l’opera concettuale che porta avanti da quasi vent’anni. Averlo in studio, farlo cantare e recitare, una cosa a cui lui non era molto abituato, è stata già un’operazione molto delicata. In più, inviavamo a Pistoletto versioni sempre più aggiornate del brano, ma lui non aveva uno stereo a casa, accrocchiava delle registrazioni, produceva delle controfasi che sfalzavano completamente gli equilibri del brano. Abbiamo capito che tentava di collegare la tv a un registratore finché lo abbiamo convinto a farsi raggiungere dai ragazzi della sua Città dell’arte con delle cuffie. Misurarsi con un gigante di quelle proporzioni è stato molto molto emozionante, ma decisamente rocambolesco”.
Che pensate dell’Italia di oggi, vi piace?
S. «Ogni volta, negli ultimi tre decenni, abbiamo vissuto una sorta di illusione. Abbiamo iniziato a fare musica insieme in un periodo storico in cui cadeva il muro di Berlino, c’era Tangentopoli, sembrava che il mondo tendesse a un miglioramento. Io e quelli della mia generazione portiamo dentro una sorta di speranza, mentre le generazioni successive hanno vissuto la depressione del realismo, con l’idea che tutto quello che ci hanno raccontato fosse una menzogna. All’epoca di Tangentopoli ho pensato a un certo punto che le mafie potessero smettere di esistere, che nel Duemila il ricatto sociale delle mafie cessasse. E invece era una illusione. Anche le guerre: ci sono sempre state, ma c’è stata un’epoca in cui la pace aveva un peso molto più importante del nostro tempo».
M.C.: «L’Italia di oggi è completamente imbrigliata nel proprio passato, non si riescono ad affrontare argomenti senza dover giocare di sponda con categorie o ideologie obsolete. E tutte le istanze trasformative vengono dall’Europa. Quello che trovo positivo, invece, è la presenza di una generazione di venti-trentenni che maturano skill che li vedono brillare anche in confronto ai loro coetanei di altri Paesi. Questi ragazzi hanno già in mente che nel mondo di domani bisognerà avere come orizzonte l’Europa. Quello che non riescono ad ottenere qui lo vanno a cercare altrove. Secondo noi l’Italia di oggi va letta con lo sguardo di un ragazzo di quella generazione».
Giuseppe Scuccimarri
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