A tu per tu con Tommy Kuti per parlare del singolo “Piazza Napoli”. La nostra intervista al pioniere dell’afrobeats in italia
È in radio e digitale “Piazza Napoli”, il nuovo brano del poliedrico artista pioniere dell’Afrobeats in Italia Tommy Kuti.
Nel suo racconto emergono errori e amicizie perdute, ma anche momenti di gioia e feste indimenticabili. L’artista condivide i suoi successi e la strada che ha percorso, rivelando i disagi e le sfide affrontate in una città che, pur apparendo accogliente, in un attimo può rivelarsi fredda e distaccata.
Tommy Kuti arriva in Italia con la famiglia dalla Nigeria a soli due anni, cresce a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, dove comincia a fare musica da giovanissimo. Nel 2016 collabora con Fabri Fibra nel brano “Su le mani” e nel 2018 pubblica il suo primo album “Italiano Vero” che contiene il singolo #AFROITALIANO. Quest’anno, ha partecipato al nuovo film de Il Milanese Imbruttito “Ricomincio da taaac”.
Partiamo da “Piazza Napoli”, com’è nato e cosa rappresenta per te questo pezzo?
«Sono affezionato a questa canzone. “Piazza Napoli” Questa racconta la prima fase della mia vita a Milano, quando mi sono trasferito nella city ed ho iniziato il mio percorso».
Si tratta di un racconto dei tuoi primi anni a Milano. Quali sono i ricordi più forti che emergono da quel periodo e come è cambiato nel tempo il tuo rapporto con questa città?
«Inizialmente ho forse lasciato che la città “mi bevesse” come canto nella canzone: “Milano da bere ma c’ha bevuto la city”. Ora cerco di rimanere più attento, tenere gli occhi aperti e non soccombere a ritmi non miei. Voglio portare avanti la vita con le mie tempistiche senza darla vinta alla pressione sociale».
A livello musicale, che tipo di lavoro c’è stato in studio dietro alla ricerca del sound del pezzo?
«In questo brano uniamo varie sonorità; l’afrobeats, il rap, l’afroswing inglese ed il pop italiano. Io e i produttori della canzone, BEF1 e SOQOMOQO, abbiamo provato ad unire queste sonorità che ci caratterizzano».
Sei uno dei pionieri dell’Afrobeats nel nostro Paese. Com’è stato contaminare qui suoni con l’approccio italiano?
«Nel bene e nel male è sempre una missione. È bello rendersi conto che stiamo creando nuove sonorità e un nuovo modo di fare musica. D’altra parte non è semplice non avere ispirazioni o artisti da prendere come riferimento».
Nel corso della tua carriera hai esplorato diversi ambiti, dalla musica alla scrittura, dal teatro al cinema. Cosa unisce e cosa differenzia tutte queste esperienze?
«Io vedo ogni forma d’arte come un’occasione per mettere in mostra la propria creatività e raccontare una storia. Pur essendo output diversi, mi diverte profondamente fare tutto. Dallo scrivere canzoni, allo scrivere un libro o recitare un personaggio. Sono un fucking egocentrico lo ammetto».
Tra quelli che si possono rivelare, c’è un sogno che ti piacerebbe realizzare in futuro?
«Un giorno mi vedrei giudice ad un Talent. Non tanto per la visibilità quanto per la possibilità di aiutare un talento acerbo a diventare una superstar».
Per concludere, qual è l’insegnamento più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«Credo che la carriera nella musica sia un po’ una morale della vita: “tieni duro e continua a spingere, prima o poi ti ascolteranno!».
Nico Donvito
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