Entriamo dentro il testo di una canzone per comprenderne il senso
Nuovo appuntamento con “Canzone per te”, la rubrica che ogni settimana ti porta alla scoperta di un brano diverso, cercando di capire il significato e il messaggio che vuole trasmettere attraverso la sua musica e le sue parole.
In questo appuntamento porremo sotto la lente di ingrandimento un testo “speciale” e che tutti cantiamo, almeno in parte, a squarciagola e con la mano sul cuore: “Il Canto degli Italiani”, meglio conosciuto come “Inno di Mameli” o “Inno d’Italia”, ossia l’inno nazionale della Repubblica Italiana.
Il testo fu scritto nel 1847 dall’allora ventenne Goffredo Mameli, in un periodo in cui il patriottismo e il desiderio di unire l’Italia era sempre più forte ed evidente. La melodia avvolgente e il grande impatto suscitato dai versi hanno fatto de “Il Canto degli Italiani” un vero e proprio simbolo dell’unificazione del Paese (che avverrà il 17 marzo 1861).
Interessante sottolineare che lo stesso Giuseppe Verdi, in occasione dell’Esposizione Universale di Londra del 1862, prese come riferimento proprio “l’Inno di Mameli” per rappresentare l’Italia (e non la “Marcia Reale” che, ufficialmente, sarà l’inno del Regno d’Italia dalla sua unificazione sino alla caduta della monarchia nel 1946).
“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta. Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. L’Italia chiamò”: sono queste le parole con cui si apre l’Inno. L’autore si rivolge ai compatrioti italiani, affermando che l’Italia si è svegliata e si è posta sul capo l’elmo di Scipione l’Africano, celebre militare romano, ricordato in particolare per la vittoria a Zama contro i Cartaginesi nella seconda guerra punica. Importante è anche il riferimento alla dea Vittoria, che dovrebbe porgere la sua chioma a Roma in segno di sottomissione.
Mameli sostiene inoltre che in nome dell’Italia bisogna essere disposti a sacrificarsi e morire: lo “stringiamoci a coorte” è pertanto un invito a combattere con orgoglio e fierezza contro l’oppressore. La coorte, infatti, era un’unità militare dell’esercito romano composta da 600 uomini.
“Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. L’Italia chiamò”: la speranza (“speme”) di unirsi sotto un’unica bandiera (simbolo di unità e di orgoglio nazionale) risuona fortemente all’interno della seconda strofa.
Non bisogna infatti dimenticare che, nel 1847, l’anno in cui fu scritto il testo, l’Italia era ancora divisa in sette Stati diversi (Regno Lombardo-Veneto, Ducato di Parma, Ducato di Modena, Granducato di Toscana, Stato Pontificio, Regno delle Due Sicilie e Regno di Sardegna); il desiderio e la volontà di “fonderci insieme” cominciava ad essere evidente.
“Uniamoci, amiamoci. L’Unione e l’amore rivelano ai Popoli le vie del Signore; giuriamo far libero il suolo natìo: uniti per Dio, chi vincer ci può? Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. L’Italia chiamò”: nella terza strofa gli ideali di unità e amore ricoprono ancora un ruolo di notevole importanza. Goffredo Mameli, infatti, era un mazziniano convinto: egli, pertanto, attraverso l’unione di tutti gli Stati italiani, auspicava la realizzazione della Repubblica. Emerge poi anche la figura di Dio, visto come un sostegno e un punto di riferimento per il popolo italiano in questa battaglia: il “per Dio” è un francesismo, che indica “attraverso Dio” o “con l’aiuto di Dio”.
“Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano. Ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano. I bimbi d’Italia si chiaman Balilla. Il suon d’ogni squilla, i Vespri suonò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. L’Italia chiamò”: in questa strofa l’autore ripercorre sette secoli di storia italiana e di lotta contro i vari oppressori. Il primo evento enunciato è la Battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega Lombarda, sotto il comando della figura mitica di Alberto da Giussano, sconfisse l’imperatore Federico I Hohenstaufen, meglio noto come il Barbarossa; questa battaglia fu cruciale perché costrinse l’imperatore del Sacro Romano Impero a rinunciare al suo piano di conquista, stipulando una tregua di sei anni con le città lombarde. Successivamente l’autore fa riferimento all’eroica difesa della Repubblica di Firenze, assediata dall’esercito di Carlo V d’Asburgo nel 1530. Ad assumere notevole rilievo in questa vicenda è il capitano fiorentino Francesco Ferrucci, che divenne il simbolo della difesa del capoluogo toscano prima della caduta della città; dopo essere stato ferito e catturato, egli venne ucciso da Fabrizio Maramaldo, un capitano a servizio dell’esercito imperiale. Le parole rivolte al nemico prima di esalare l’ultimo respiro (“Tu uccidi un uomo morto”) diventeranno celebri.
Goffredo Mameli pone poi in risalto il coraggio e l’ardore di un fanciullo, probabilmente un certo Giambattista Perasso (poi diventato il leggendario Balilla) che, il 5 dicembre 1746, diede inizio alla rivolta di Genova contro la coalizione austro-piemontese, scagliando una pietra contro un ufficiale dell’esercito nemico. Solo cinque giorni dopo la città ligure sarà libera dal dominio straniero. L’ultimo riferimento storico in questa strofa è quello dei “Vespri Siciliani”, ossia l’insurrezione della Sicilia nei confronti dei dominatori francesi (gli Angioini). La sera del 30 marzo 1282, infatti, “il suon d’ogni squilla” (ovvero il suono delle campane) invocò l’insurrezione del popolo contro il nemico.
“Son giunchi che piegano le spade vendute: già l’Aquila d’Austria le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, il sangue Polacco bevé, col cosacco, ma il cor le bruciò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. L’Italia chiamò”: nell’ultima strofa emerge chiaramente la situazione di crisi e declino vissuta dall’Austria degli Asburgo. Le “spade vendute” (ossia le truppe mercenarie dell’esercito imperiale), infatti, sono ormai indebolite e persino “l’Aquila” (lo stemma imperiale degli Asburgo) “le penne ha perdute”. Di fronte a questa situazione di crisi e stallo l’autore chiama per l’ultima volta il popolo italiano alle armi per porre fine al dominio austriaco. Importante è anche il parallelismo con la Polonia: infatti, tra il 1772 e il 1775, l’Impero austro-ungarico, assieme alla Russia (il “cosacco”), aveva invaso la Polonia.
In definitiva “Il Canto degli Italiani”, oltre ad essere l’inno della Repubblica Italiana, rappresenta anche il simbolo del sacrificio portato avanti da diversi uomini e donne per rendere l’Italia un paese libero. I diritti di cui godiamo oggi, garantiti dalla Costituzione e dalle diverse leggi, non devono però essere dati per scontati; essi sono il frutto di un lavoro costante, durato per secoli, e del sacrificio di innumerevoli individui. E tutto ciò non va dimenticato.
Testo |
Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
(Evviva l’Italia
Dal sonno s’è desta
Dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa
Dov’è la vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò).
Giuseppe Currado
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