A tu per tu con il rapper torinese, in uscita con il suo quarto progetto in studio intitolato “Iodegradabile“
Tempo di nuova musica per Guglielmo Bruno, alias Willie Peyote, artista classe ’85 che nel corso degli ultimi anni è riuscito a distinguersi grazie alla propria abilità nello scrivere cose interessanti, in maniera piuttosto originale e parecchio personale. A due anni di distanza dalla pubblicazione del suo ultimo album “Sindrome di Tôret”, torna in scena con il suo quarto disco “Iodegradabile”, anticipato dal singolo “La tua futura ex moglie” (qui la nostra recensione), che ha segnato in qualche modo una svolta nel suo percorso, dimostrando di essere un perfetto anello di congiunzione tra rap e cantautorato.
Ciao Guglielmo, partiamo da “Iodegradabile”, un disco suonato e di contenuto. Quali tematiche e che tipo di sonorità hai voluto abbracciare?
«La tematica generica che avvolge tutto il percorso del disco è il tempo, o meglio il nostro rapporto col tempo, com’è cambiata la nostra percezione e il nostro rapporto con la fine delle cose, in un’epoca in cui finisce tutto prima, sia la musica che i rapporti durano meno. Musicalmente abbiamo cercato di spaziare in ambiti in cui fino ad oggi ci eravamo mossi poco, mi piace descrivere il disco un po’ meno black e un po’ più english, come sonorità e come approccio alla scrittura, ci sono molte più chitarre rispetto ai miei dischi precedenti, c’è un po’ più di rock e meno soul. Oggi ha prevalso la mia chiave Devon Allman e domani tornerà Kendrik Lamar».
Il concept dell’album è il tempo, inteso in tutte le sue declinazioni, compresa la frenesia tipica di quest’epoca così consumistica. Da qui anche la copertina, com’è nata l’idea di incelofanarti?
«Bisogna dire grazie ad EBLTZ, la coppia di grafici che ci segue ormai da tre dischi. Abbiamo spiegato loro il concept dell’album e lo hanno declinato in questo modo, non potevano trovare di meglio, anche per prendere un po’ per il culo quelli che mia accusano di essermi venduto da quando sono in una major, più commerciale di così!».
Se la discografia italiana fosse un supermercato, in quale reparto ti collocheresti?
«Ma io vorrei essere nel reparto giocattoli, perché mi ricordo di quando andavo a fare la spesa con mia mamma e mi diceva sempre: “sì sì, poi vediamo, poi vediamo”. Il reparto giocattoli era avvolto da un alone di bellezza irraggiungibile, sai tipo “La regina del Celebrità” di Max Pezzali? Ecco, per me la corsia dei giocattoli del supermercato ha lo stesso fascino!».
Tra le tracce si parla molto di web, dell’influenza che ha sulla nostra attuale società. Quali sono secondo te i pro e i contro della rete e come valuti il tuo rapporto con i social network?
«Il pro innegabile è la velocità di comunicazione, ti mette in contatto con il resto del mondo in un nano secondo, ad esempio i miei nipoti vivono in Equador e io posso sentirli in qualunque momento della giornata. Se da un lato sono utili, dall’altro i social rendono tutto molto più impersonale, i ragazzi che ci crescono dentro non conoscono il calore dell’analogico, un po’ come il vinile o la musica dal vivo, è lo stesso identico concetto. Ciò che è freddo lascia da parte tutto quello che il corpo umano ha bisogno di sentire».
“La tua futura ex moglie” è il titolo del singolo che ha anticipato questo lavoro, a questo giro hai un po’ sdoganato la tematica dell’amore, presente anche nella bonus track “Semaforo”. Hai per la prima volta detto le due paroline magiche, ti sei aperto con slancio ad un “Ti amo”. Come sei arrivato a questa consapevolezza?
«E’ stato un caso, ero innamorato, lo sono ancora, era giusto per me e anche per lei che venisse raccontato così, perché era una cosa bella in cui ho creduto molto, ci ho lavorato, è stata una cosa seria. Mi sono aperto perché è successo, crescendo mi sono tolto un po’ di paletti, mentre prima avevo un po’ paura di come sarebbe stata percepita la parte “puccettona” di Willie, col tempo il giudizio degli altri mi intimorisce sempre di meno, questo mi aiuta a poter essere ancora più sincero. La sincerità è il mio obiettivo».
Nei tuoi lavori non ti sei mai censurato, hai sempre espresso il tuo pensiero sia sociale che politico, non hai mai avuto il timore che una frase, piuttosto che un concetto potesse essere non compreso alla perfezione o peggio ancora strumentalizzato?
«La forza sta nel come le scrivi o le dici le cose, se non vuoi essere strumentalizzato basta fare attenzione al come dici una cosa e al contesto in cui la dici, infatti nel mio caso non è mai successo, ho preso qualche insulto ma se arriva da una certa persona la prendo come una medaglia, non mi turba, anzi mi fa piacere. Non ho paura perché se mi chiedono di argomentare una mia frase credo di essere in grado di farlo (sorride, ndr), non ho paura di quello che dico perché prima ci penso».
In un’epoca in cui siamo inondati di musica, tutto và velocemente e l’attenzione del pubblico è inevitabilmente diminuita, quali caratteristiche deve avere una canzone per non essere “skippata”?
«Guarda, per citare le parole del grande Dave Grohl: ”don’t bore us, get to the chorus”, che vuol dire: “non ci annoiare, vai al ritornello”. La musica deve innanzitutto piacere alle persone, deve essere un momento di svago e di divertimento, poi ci puoi mettere tutti i concetti che vuoi, ma se li metti in una canzone noiosa puoi anche dire la cosa più bella del mondo ma la gente non l’ascolta. Cosa si può fare per migliorare la soglia dell’attenzione? Fare canzoni che per capirle devi ascoltarle tre volte, ma che ti colpiscono e ti piacciono dalla prima volta. Io cerco di scrivere in quel modo lì, a strati, dopodichè la canzone deve essere bella dalla prima volta che schiacci play, questo è fondamentale, poi se ascoltandola altre volte senti cose che di primo acchito non avevi sentito, è meglio».
Uno dei problemi di oggi è che capita di considerare già vecchia una canzone uscita sei mesi fa. Ti sei mai dato una spiegazione a riguardo?
«I panini del Mc Donald’s dopo quanti minuti non si possono più mangiare? Nel senso, se tu produci per il fast food è ovvio che la tua roba diventa vecchia subito, si può fare lo slow food ma deve essere di qualità, è una questione di qualità, di ingredienti. Se davvero conta così tanto il packaging io te lo faccio pure bello, ma dentro ci deve essere qualcosa che funziona».
Un disco suonato dicevamo all’inizio, che inevitabilmente si presta ad essere traslato dal vivo. Come te li stai immaginando i prossimi live?
«Ci stiamo lavorando, me li immagino senza dubbio movimentati, a me piace pensare che la gente possa tornare a divertirsi ai concerti, che salti e che balli, il mio obiettivo è quello di far muovere il culo e il cervello contemporaneamente. Perché ai concerti mi divertivo quando ero più piccolo, ballavo per due ore, perché la gente deve venire a sentirti dal vivo e solo cantare? Certo è una valvola di sfogo incredibile, cantando ci liberiamo tutti, ma se muoviamo pure altre parti del corpo magari facciamo anche esercizio, un po’ di cardio, aiuta no?».
Per concludere, A chi si rivolge la tua musica? Pensi che possa essere un giusto anello di congiunzione tra un pubblico più maturo e le nuove generazioni?
«Di base lo sono io quell’anello di congiunzione, perché ho un’età tale per cui non sono più giovane davvero, ma nemmeno vecchio. Cerco di rappresentare me stesso, anche come ascoltatore credo di essere un anello di congiunzione perché ho sempre ascoltato e apprezzato tanti generi musicali diversi, influenze che cerco di riprodurre nella mia musica. Non voglio parlare esclusivamente ai giovani o solo ai miei coetanei o solo ai cinquantenni, desidero parlare a tutti, facendo attenzione alle parole che scelgo».
Nico Donvito
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