giovedì 21 Novembre 2024

ULTIMI ARTICOLI

SUGGERITI

Silvia Olari: “Il mio ritorno onesto e rhythm and blues” – INTERVISTA

A cinque anni dal suo ultimo progetto discografico, l’artista emiliana lancia “There is something about you”

Silvia OlariE’ disponibile dal 23 marzo il nuovo album di Silvia Olari, artista che abbiamo conosciuto nel corso dell’ottava edizione del talent show “Amici” di Maria De Filippi. Si intitola “There is something about you” e rappresenta l’inizio di un nuovo percorso artistico per la cantautrice parmense, che si è affidata all’esperienza del produttore Bjorn Johansson che, insieme all’autore Jim Lindqwister, ha confezionato dieci tracce che mettono in mostra le sue sfumature vocali soul e R’n’B, eseguite rigorosamente in lingua inglese. Il disco è uscito in contemporanea in tutta Europa e in Nord America, distribuito sia in formato fisico che in digitale dalla Spectra Music, la più importante etichetta indipendente degli Stati Uniti.

Ciao Silvia, ben ritrovata. Possiamo dirlo, “There is something about you” è finalmente disponibile in qualsiasi tipo di store, sia digitale che tradizionale, come stai vivendo questo momento?

«Bene, anzi benissimo. Ci tengo a ringraziare subito il mio produttore Bjorn Johansson, con il quale mi sono trovata veramente molto bene. Dopo i miei precedenti lavori, ho avvertito la necessità di avere qualche stimolo in più, così mi sono trasferita a Londra e, durante la mia permanenza, mi sono imbattuta in un annuncio online in cui cercavano una voce soul. Così, per gioco, ho inviato una mia registrazione di “If I ain’t got you” e da lì ho iniziato a collaborare con questo nuovo team, facendo avanti e indietro da Stoccolma. Una lunga fase di realizzazione, durata all’incirca due anni, un’esperienza che mi ha forgiato totalmente, sia a livello umano che artistico».

Un disco con una forte matrice soul e R’n’B, pensi che sia proprio questa la tua vera anima artistica?

«Probabilmente sì, anche perché credo moltissimo nel destino, nei casi della vita, io ho esordito proprio con queste sonorità e se dopo diversi anni sono ritornate, così per caso, ci sarà sicuramente un motivo. Sin da bambina mi sono avvicinata alla musica, più precisamente al repertorio femminile italiano, le varie Elisa, Giorgia e Laura Pausini, ad un certo punto ho unito il pianoforte alla voce e da quel momento ho cominciato a tirare fuori questa mia predisposizione al rhythm and blues, riconoscendomi in artisti del calibro di Alicia Keys e Ray Charles».

Infatti, sei stata la prima concorrente in un talent show a proporre questo tipo di musica…

«Si, mi sono ritrovata casualmente a fare qualcosa che ho scoperto essere affine alla mia vocalità, ho incontrato queste canzoni sulla mia strada, ad esempio “Georgia on my mind” che è diventato uno dei miei cavalli di battaglia e che ho eseguito anche ad “Amici”, è stata in assoluto la cover che mi ha portato all’ammissione nella scuola. Come vedi nella vita tutto torna».

Un disco prodotto da Bjorn Johansson, esperto del genere. Personalmente trovo sia saggia la scelta di affidarsi ad un produttore che conosce a fondo certe sonorità, rispetto a talenti nostrani che magari sono specializzati in altro…

«Esatto, credo che le cose bisogna saperle fare, oltre che amare e Bjorn ha dedicato parte della sua carriera a questo genere. Sai, è anche necessario avere il coraggio di credere in un progetto non facile, scommettere in qualcosa di assolutamente non scontato e pubblicarlo in tutto il mondo, Italia compresa. Se accendiamo la radio oggi ascoltiamo tutt’altro ed è giusto trovare, magari, anche qualcosa che ti spiazza, spero vivamente in positivo». 

Quale brano del disco ti rappresenta maggiormente?

«In assoluto “Lost in yourself”, come sonorità e calore, lo trovo un pezzo molto appassionato, dall’inizio alla fine. Metricamente ha molte affinità con la musica leggera italiana, è in 4/4, moderato, chiaro e semplice, composto solo di appoggi al pianoforte. Una canzone essenziale, che ricorda un po’ le nostre ballate, poi chiaramente la melodia strizza l’occhio all’internazionalità. Un altro brano che mi rappresenta è “There is something about you”, per certi versi molto “keysiano”». 

C’è stato un momento in cui hai pensato di realizzare una versione, di una qualsiasi canzone presentente in scaletta, anche in italiano?

«Sinceramente no, mi ci fai pensare tu adesso. Sicuramente un brano che si presterebbe molto alla nostra lingua è “Let love take over”, perché è uno dei pezzi decisamente più tradizionali, orecchiabili e cantabili del disco. La melodia è lineare, ha le note lunghe e la considero un pochettino, se vogliamo, all’italiana. Poi, sai, Bjorn mi ha confidato di essere un grande amante del nostro Paese, della nostra arte».

A proposito di coraggio, sei tornata in Italia dopo cinque anni dal tuo ultimo singolo, con un progetto totalmente in lingua inglese, una scelta stimolante?

«Assolutamente si, le cose bisogna ponderarle con il tempo, valutarle attentamente e accerchiarsi delle persone giuste, aspetto fondamentale per chi fa il mio mestiere. Più che in una canzone è necessario credere in un progetto, in un artista, come ha fatto Bjorn con me, questa è stata per me una grande fortuna, perché ha saputo rispettare e valorizzare il mio mondo, oltre che la mia identità».

Hai vissuto all’estero e hai viaggiato parecchio, hai toccato con mano realtà differenti dalla nostra, m’incuriosisce sapere da te: come vedono noi italiani fuori dai nostri confini nazionali?

«Guarda, riconoscono la nostra arte, attraverso la passione e il calore che nei secoli abbiamo sempre espresso. E’ un qualcosa che noi non riusciamo forse a captare, perché siamo soffocati e ossessionati dai nostri problemi, ma all’estero abbiamo una grandissima reputazione, ci stimano e riconoscono il nostro valore oggettivo, quello che a volte fatichiamo a individuare. Inviterei tutti gli italiani che hanno perso la stima e la propria fiducia nazionale ad emigrare per un periodo, per scoprire da fuori tutta la bellezza che abbiamo e che, forse, diamo troppo spesso per scontato». 

Tornando all’esperienza di “Amici” mi viene in mente Luca Jurman, un grande musicista che ha creduto sin da subito nelle tue potenzialità e in questo tipo di sonorità ricercate e raffinate..

«Lui è una persona eccezionale e un artista di altissima qualità, ho avuto la fortuna di averlo come coach nella scuola, è stato tra i primi a spingermi su questa strada. Il mio primo singolo, infatti, è stato “Wise girl” prodotto da Nicolò Fragile e, rispetto agli altri due miei brani presenti nella compilation “Scialla”, è stato quello più apprezzato dal pubblico, perché era il più autentico». 

Un desiderio per il prossimo futuro?

«Mi piacerebbe che questo progetto si trasformasse in un live tour, magari per la prossima estate. Abbiamo già rodato e sperimentato le canzoni in uno showcase lo scorso 18 marzo nella mia amata Parma, con altri tre musicisti che mi hanno accompagnata ed è stato fighissimo. Vorrei tanto portare in giro questo progetto dal vivo, farlo ascoltare alla gente, perché credo che l’inglese non sia un ostacolo, penso che ormai sia un qualcosa di ampiamente sdoganato».

Un preconcetto tutto italiano, dunque, finalmente superato?

«Ma credo proprio di si. Più che la lingua sono le influenze e le sonorità che possono o meno interessare o piacere, oggi. Una delle mie canzoni più conosciute “Fino all’anima”, era un brano soul cantato in italiano scritto, tra l’altro, da Nek che è un grande estimatore dell’internazionalità, come canta Sting lui non lo fa davvero nessuno». 

Per concludere, trovo sarebbe molto interessante che tu continuassi a percorrere queste sonorità anche in italiano, un genere già sperimentato inizialmente da Tiziano Ferro, poi purtroppo abbandonato. Si sente un po’ la mancanza di qualcuno che rappresenti l’R’n’B anche nella nostra lingua…

«Già, è vero. Spesso si dice “squadra che vince non si cambia”, nel caso di Tiziano Ferro lui si è affermato proprio con questo genere, non so come mai con il tempo abbia deciso di abbandonare questa strada per un qualcosa di più tradizionale, in Italia si tende a rischiare poco, anche se lo trovo un controsenso. Se una cosa funziona, se alla gente piace, perché cambiare? Quello che conta è l’autenticità di un artista e lui, ad esempio, lo trovavo molto più naturale agli esordi. Da noi non è facile identificarsi, spesso i giovani che tentato Sanremo Giovani propongono il classico brano sanremese, senza osare più di tanto. Bisogna avere il coraggio di sfondare il muro del pregiudizio, perché non è detto che una cosa nuova non funzioni. Per quanto mi riguarda, chissà. Potremmo lavorarci, con Bjorn lo abbiamo accennato e potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante, magari da proporre per il Festival, non si sa mai!».

The following two tabs change content below.

Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.