D: “The importance of words (songs of love, anticapitalism and mentalillness)” è un lavoro eterogeneo e molto trasversale che trae ispirazione da diversi gruppi iconici: si va dai Beatles passando dai Radiohead fino ai Nirvana. Come nasce l’idea di questo album? Raccontaci un po’ di te e cosa vuoi trasmettere con la tua musica.
R: “Ciao a tutti! Diciamo che “The importance of words (songs of love, anti-capitalism and mental illness)” nasce un po’ per caso, visto che le canzoni che lo compongono sono state scelte man mano, in corso d’opera, mentre facevo uscire vari singoli, nel tempo, che poi hanno dato vita, insieme ad altri inediti, all’album. Non è propriamente un concept album, anche se uno dei temi preponderanti è l’analisi critica della nostra società consumistica. A
livello musicale è molto vario, come vari sono i miei ascolti: c’è il rock psichedelico, c’è il pop, c’è il punk, il grunge, l’art rock, l’alternative, il dream pop, lo shoegaze, l’elettronica in varie sue sfaccettature. Per quanto riguarda me e cosa voglio trasmettere, direi che voglio semplicemente cercare di fare buona musica con dei testi che non siano banali, che si parli di società, che si parli di amore.”
UN MIX DI INFLUENZE TRA SPERIMENTAZIONE E ORECCHIABILITA’
D: Hai parlato di questo album dicendo che rappresenta un mix di influenze in cui si bilanciano sperimentazione e orecchiabilità, tematiche sociali e testi più intimi: possiamo definirlo un mix dei tuoi 5 singoli usciti fino ad ora? Secondo te tanti generi e la varietà di messaggi possono coesistere in un unico album?
R: Ho sempre apprezzato album variegati come il “White album” dei Beatles o, per rimanere in casa nostra, “Non al denaro non all’amore né al cielo” di De André, fino a perle da riscoprire come “Senza smettere di far rumore” di Zibba, dove molti sono i generi musicali toccati, di canzone in canzone. Quindi, si, assolutamente: anzi, apprezzo maggiormente opere eterogenee perché ti danno più spunti di ascolto e non ti permettono di fossilizzarti su un solo genere, limitandoti.
D: Hai scelto SOLO come nome d’arte: un modo per far capire che ti
lascerai influenzare dai generi che ti piacciono e non ti violenterai
seguendo le tendenze del momento se quest’ultime non ti ispireranno?
R: “No: il nome è stato scelto perché, molto pragmaticamente (e banalmente), è un progetto a cui ho dato vita da solo. Per quanto riguarda il discorso sulle tendenze attuali, ammetto di essere molto ignorante, in merito: mi capita di ascoltare qualcosa, ma non c’è nulla che tocchi le mie corde. Forse i Clean Bandit (ma non so se possono essere annoverati ancora fra le band di tendenza). Per il resto, il rap non l’ho mai ascoltato, nemmeno da ragazzino; l’itpop (o come vogliate chiamarlo) ha delle cose carine (apprezzo alcune cose di Calcutta e Coez), ma è diventato un copia/incolla continuo, canzoni
tutte uguali l’una all’altra da “consumare” e dimenticare nel giro di poco tempo, espressione della società consumistica, il concetto di catena di montaggio, della produzione su larga scala, applicato anche all’arte. Ad ogni modo, sono sempre aperto all’ascolto.”
LA SOCIETA’ PUO’ INFLUENZARE NEGATIVAMENTE LE SCELTE?
D: Sei stato abbastanza critico nei confronti della società e di come quest’ultima possa influenzare anche negativamente le scelte e la musica: pensi che in questo momento ci sia l’abitudine a seguire la corrente? Hai detto che sono pochi i generi musicali in cui non ti riconosci: puoi dirci cosa non ti piace della musica di oggi?
R: Dire “musica di oggi” non vuol dire nulla, perché ci sono un sacco di artistiche meritano, anche fuori dal sottobosco (vedi Daniela Pes). Se poi mi dici “musica di oggi MAINSTREAM”, allora lì il discorso cambia. Ad ogni modo, ho in parte risposto alla tua domanda nella precedente. Aggiungo che, al di là della pochezza in quanto a linguaggio musicale, banale e ripetitivo, ridotto a jingle, la banalità dei testi è disarmante. E uno dei problemi più grossi è il fatto che la maggior parte di queste canzoni non parlino delle problematiche che vive la gente (se non in maniera banale), ma siano permeate da un’autoreferenzialità, un egocentrismo, per non dire narcisismo, devastante; misto, in molti casi, poi, a un piangersi addosso arrendevole, ma sempre legato a questioni futili. Il nichilismo è cosa buona e giusta; ma quando porta a una reazione, alla rabbia contro il sistema. Questo piangersi addosso è preoccupante. E patologico. Non critico questi “artisti” (dovrei dire
“artigiani”?); piuttosto li compatisco.”
D: Particolare attenzione, ascoltando i brani dell’album, hai dato ai suoni. Hai sperimentato anche in quel campo, sia in fase di creazione che di mixaggio: vuoi offrire a chi ascolta una nuova lettura della musica? Una totale immersione nel pezzo?
R: “Dovrei soffermarmi su ogni singolo brano, perché ognuno presenta le proprie peculiarità. Fra le cose più particolari, di sicuro c’è stato l’utilizzo del binaurale che, quando il brano è ascoltato in cuffia, dà l’idea che il suono così trattato sembra muoversi attorno all’ascoltatore (si può ascoltare in “Don’t shoot the piano player (it’s all in yuor head)” e “Emotional (e)states”). In generale, ho giocato molto con gli effetti a pedale (anche i suoni di synth sono derivati da chitarre processate tramite questi effetti, e non da tastiere);
altre cose le ho scritte su spartito (gli archi, gli ottoni) o piano roll (gli arpeggiatori), poi tradotte in musica tramite l’utilizzo di librerie ed affini; ho, in generale, usato un sacco di effetti, e nei brani ci sono un sacco di sovraincisioni.”
I FEATURING NELL’ALBUM
D: Nell’album ci sono featuring con Nobody e Alidavid: come nasce il desiderio di collaborazione con loro? E prevedi collaborazioni con altri artisti nel tuo futuro? Con chi ti piacerebbe confrontarti?
R: “Per quanto riguarda Nobody, lei suona già il basso nell’altro mio progetto musicale, la The Bordello Rock ‘n’ Roll Band, nelle vesti di Mrs. Weisse. Cercavo da tempo una voce femminile per il brano “Something (you don’t need)”: ascoltatola cantare pensai la sua voce fosse perfetta. Alidavid è un mio caro amico ormai da anni. Avevo questo brano dove ci andava su uno spoken, che volevo molto teatrale. Avevo provato a registrare qualcosa io, ma il risultato era disastroso. Così ho pensato a lui, non so bene per quale motivo. Beh, non mi pento assolutamente della scelta: la sua interpretazione, sopra le righe, così come l’avevo immaginata, pensando ai Monty Python, è magistrale. Come collaborazioni per il futuro, mi piacerebbe poter fare qualcosa con Francesco Di Bella dei 24 Grana: magari proverò a chiederglielo, prima o poi.”
D: Tra i brani dell’album ce n’è uno che senti più tuo, in cui ti senti più
dentro? E perché?
R: “Ogni scarrafone è bell’a mamma soja”, citando Pino Daniele che riprende un detto della tradizione popolare partenopea. Mi piacciono davvero tutte e tutte rispecchiano ciò che sono, la mia visione; ognuna magari concentrandosi su aspetti differenti del mio io. Se ne dovessi scegliere una e una sola, però, direi “Look out (consumerism will consume you)”: di quella sono molto orgoglioso, dal fatto che non abbia un giro di accordi scontato alla linea vocale così intensa; dai vari cambi di registro che avvengono durante la durata del brano al giro di basso molto complesso e, al contempo, melodico; fino ai tanti effetti sonori, spesso disturbanti, che completano il quadro.”
D: Parliamo di progetti futuri: ci saranno o sono programmate delle date live? O, comunque, hai qualcosa in testa che vorresti realizzare?
R: “Probabilmente una data in acustico a Roma a inizio maggio, ma ancora
nulla di certo. Voglio vedere prima come andrà l’album come recensioni, per
poi partire con la promozione live, probabilmente dopo l’estate. Intanto vorrei
registrare nuovo materiale, da rilasciare sempre dopo l’estate. Vedremo.
STAY ANTI-CAPITALIST.”
Giuseppe Scuccimarri
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