giovedì 10 Ottobre 2024

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Naska: “Il punk-rock non è un genere dominato dal super-io” – INTERVISTA

A tu per tu con Naska in occasione della release del suo nuovo album “The Freak Show”. in questa intervista ci racconta com’è nato e le sue sensazioni alla vigilia dell’uscita

All’anagrafe Diego Caterbetti, per tutti Naska. Abbiamo incontrato per questa intervista la punta di diamante del nuovo rock-punk italiano alla vigilia dell’uscita di “The Freak Show”, il suo terzo album, fuori per Thamsanqa / The Orchard da venerdì 11 ottobre.

L’occasione ideale anche per parlare di “The Freak Family“, film d’animazione già disponibile su Prime Video, che accompagna l’uscita di questo progetto e ne rappresenta un po’ una sua costola. Disegnato da Pietro Cascavilla e scritto dallo stesso Naska con Alessio Stigliano, questo cartoon racconta le caratteristiche e le contraddizioni della tipica famiglia italiana.

Un duplice progetto che mette così insieme arte visiva e arte sonora, sottolineando la poliedricità di Naska e il suo stile comunicativo, la sua cifra stilistica, ormai ampiamente consolidati e riconoscibili, e anticipa quello che sarà il grande appuntamento live del prossimo 7 dicembre all’Unipol Forum di Milano, organizzato e prodotto da Vivo Concerti.

Naska, l’intervista

Da dove sei partito e come si è svolto il processo creativo di questo nuovo album?

«Il processo si è svolto come gli altri dischi, perché io non parto mai da un concept, perché lo trovo abbastanza limitante. Scrivere un album pensando a un argomento prestabilito, non fa per me. Ogni volta che entro in studio cerco di mettere in musica ciò che mi passa per la testa in quel momento, anche un po’ per liberarmi di certi pensieri, no? Perché non sono mai canzoni felici, ma riflessioni che non vedo l’ora di far uscire così da togliermi un peso».

Venendo all’etimologia della parola “Freak”, la traduzione dall’inglese significa letteralmente capriccio, mentre italianizzandola assume vari significati. Tu che significato attribuisci a questo termine e, di conseguenza, a questo titolo?

«Strano. Perché quando penso a “The Freak Show” immagino un grande circo, ma non il solito circo con il clown, il giocoliere e il mangiafuoco. Penso più a un circo dark, tetro, con la tipa con due teste oppure il tipo che ha le mani a chela. Alla parola “Freak” ci associo il significato di “strano”, proprio perché ascoltando il disco stesso ci sono all’interno vari stati d’animo. Perché il circo? Perché quando ho finito di scrivere il disco, ho scelto la canzone un po’ più rappresentativa, “Pagliaccio”, che parla della maschera che portiamo un po’ tutti quanti nel relazionarci con le altre persone. Faccio l’esempio del “Ciao come stai? Tutto bene, tu?”. Tutto bene, quando non c’è mai nulla che va bene. Ci viene spontaneo, automatico. Maschera che porto io stesso quando faccio il mio lavoro, magari quando devo salire sul palco dopo una no. Prima di esibirmi, è inevitabile che io debba mettere i problemi da parte e presentarmi al pubblico senza nessun peso addosso».

Tanti i temi trattati in “The Freak Show”, si parla di alienazione e di ricerca di libertà, ma anche di salute mentale in “Piccolo”. Quali pensieri ti hanno ispirato questo pezzo?

«Tra l’altro oggi, il 10 ottobre, il giorno prima dell’uscita del disco, ho scoperto che è la giornata mondiale della salute mentale. “Piccolo” è nata, come appunto ti dicevo prima, da una necessità di esternare qualcosa che tengo dentro. Purtroppo non riesco mai a parlarne troppo con gli amici, con le altre persone, no? Tendo sempre a tenermi tutto abbastanza dentro, fino poi a esplodere. Questo brano non è altro che un tentativo di tirarlo fuori, parla della mia paura di rimanere da solo. Quindi è una sorta di chiedere aiuto, perché riesco a farlo solo così, con la musica. Vorrei iniziare un percorso di cura dallo psicologo, ma ho sempre paura che di spostare degli equilibri, perché oggi ho imparato a gestire i miei attacchi di panico, cambiando qualcosa o scavando troppo in profondità non vorrei alterare questo stato».

Poi c’è “Pagliaccio”, brano che chiude l’ascolto e che parla delle maschere che per fragilità siamo soliti indossare nella vita. Nel testo dici: “sono rimasti solo i miei a chiamarmi Diego”. Rifletti sul fatto che molte cose nella tua vita sono cambiate, anzi ironizzi che forse le uniche cose rimaste uguali sono le paranoie. Come definiresti il rapporto rea Diego e Naska?

«In realtà, entrambi hanno la maschera, non solo Diego e non solo Naska. Il primo è quello un po’ più tranquillo, quello di “Piccolo” e di “Pagliaccio”, mentre l’altro è quello più da “E mi diverto” e “Scappati di casa”. Tra di loro vanno anche abbastanza d’accordo, perché appunto sanno che devono coesistere insieme. Forse c’è anche una terza persona che decide un giorno di far uscire uno, un giorno di far uscire l’altro. Alla fine ho solo necessità di far uscire quello che mi fa stare meglio in una determinata circostanza».

E a proposito della fama e dei suoi lati oscuri, ad accompagnare questa uscita c’è “The Freak Family”, un film d’animazione scritto e diretto da te e da Alessio Stigliano. Come è nata l’idea di collegare questo nuovo progetto musicale a una pellicola di animazione?

«Da sempre quando faccio uscire un singolo oppure faccio uscire un disco, con Pietro Cascavilla, che è il ragazzo che ha disegnato il cartone animato, pubblicavo su Instagram dei corti di animazioni di circa un minuto. Sapendo che quest’anno avrei fatto uscire il mio terzo disco, mi sono portato un pochino avanti, pensando di realizzare qualcosa di più in grande. Ci siamo detti: perché non fare un cartone animato all’italiana con i nostri stereotipi e non quelli americani? Adesso vorrei che “The Freak Family” diventasse un side project da portare avanti, che non sia musico.centrico, ma che diventi un appuntamento fisso per raccontare la famiglia italiana e gli stereotipi italiani».

Il 7 dicembre ti esibirai per la prima volta all’Unipol Forum di Assago. Che tappa rappresenta nel tuo percorso ?

«Raggiungere il Forum da indipendente è tanta roba, ma sicuramente per me non rappresenta un traguardo, perché ci sono tanti altri palchi più grandi che vorrei poter fare un giorno. Sono mega gasato, non vedo l’ora di arrivare al 7 dicembre, adesso ci stiamo preparando, stiamo preparando lo spettacolo. Ci saranno tante sorprese e sono rimasti anche pochi i biglietti, quindi… affrettatevi se volete vedermi nudo (sorride, ndr)».

Per concludere, la musica che proponi è potenzialmente plurigenerazionale, perché non segue la tendenza di un momento, ma affonda le radici in un genere radicato che più volte è stato dato per spacciato nel corso del tempo. Cosa ti affascina così tanto del Punk?

«Sicuramente, come hai detto tu, è un genere che è stato dato per spacciato tante volte, proprio come è capitato anche a me, quindi è una cosa che ci accomuna. E poi il punk-rock non è un genere dominato dal super-io, come spesso capita nel rap. È più un genere romantico, nel quale si possono ritrovare molte più persone. Quando da piccolo ascoltavo questo genere, mi affascinavano subito le melodie, le topline, che ho sempre trovato fantastiche. Non so spiegarlo a parole, è un genere che mi appartiene dentro».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.