A tu per tu con l’ispirato cantautore partenopeo, in uscita con il disco “Mia madre odia tutti gli uomini”
Piacevole incontro con Antonio Prestieri, in arte Maldestro, artista che abbiamo conosciuto a livello nazionale grazie alla sua partecipazione al Festival di Sanremo del 2017, con il brano “Canzone per Federica” che si è classificato al secondo posto della categoria Nuove Proposte, ottenendo diversi riconoscimenti come il prestigioso Premio della Critica “Mia Martini”, il Premio Lunezia, il Premio Jannacci, il Premio Assomusica e il Premio Miglior Videoclip. In occasione dell’uscita del suo nuovo album “Mia madre odia tutti gli uomini” (per Arealive con distribuzione Warner Music), abbiamo raggiunto l’artista napoletano per conoscere il suo punto di vista e scoprire le sue sensazioni alla vigilia della pubblicazione di questo nuovo importante progetto.
Ciao Antonio, partiamo dal tuo nuovo album “Mia madre odia tutti gli uomini”, cosa rappresenta per te questo terzo capitolo discografico?
«In questo lavoro ho cercato di mettere una parte della mia vita, di fotografarla e fermarla da qualche parte, ad un certo punto ho sentito il bisogno di raccontare chi sono da un altro punto di vista, mi sono reso conto che con i miei due precedenti album esprimevo la realtà in maniera diversa, quasi come se osservassi tutto dall’alto».
Cosa hai voluto lasciare fuori e cosa hai voluto portare all’interno di questo nuovo viaggio?
«Fuori ho lasciato la rabbia, quella impulsiva e poco ragionata, mentre ho voluto portare con me la ricerca della felicità, un processo per certi versi pericoloso, perché quando ti senti felice non sai a cosa puoi andare incontro, tutto ti sfugge completamente di mano e devi saperla gestire bene. In questo viaggio, a volte doloroso, c’è la ricerca della bellezza racchiusa nelle piccole cose, che poi sono sempre le più autentiche e vere».
Per anticipare l’album hai scelto “Spine”, un brano che evoca atmosfere contrastanti e che incarna il concetto universale di bellezza. Cosa hai voluto esprimere attraverso questo pezzo?
«L’idea di farlo uscire come primo singolo è arrivata perchè è il brano che mi mette più a fuoco, per far capire al meglio chi sono, la scelta meno pop ma anche quella più sincera, l’inizio di un nuovo viaggio. È un brano che ho scritto per una mia ex fidanzata che ho amato molto, una donna che possiede sia la bellezza interiore che quella esteriore, due caratteristiche che messe insieme possano ucciderti e salvarti al tempo stesso».
Personalmente ho trovato un autentico capolavoro “La felicità”, com’è nato questo pezzo?
«La nascita di questo brano non ha avuto un percorso particolare, l’ho scritta durante una notte passata al pianoforte, le parole sono venute fuori da sole, grande semplicità. Sono molto contento che ti piaccia, perché è una di quelle canzoni che contengono qualcosa di speciale e mettono d’accordo tutti, un qualcosa che avverti soltanto dopo averla composta, perché se realizzi un pezzo con questo intento non otterrai mai lo stesso spontaneo risultato. Parla della ricerca utopistica della felicità che forse non si raggiungerà mai, un po’ come questo Dio a cui personalmente non credo, che spinge tante persone a cercarlo, la mia personale opinione è che è stato l’uomo ad inventarlo e non il contrario, per paura di restare solo o per riuscire a dare un senso a tutta questa bellezza».
Com’è stato lavorare con il producer Taketo Gohara?
«Lavorare con lui è stato bellissimo, non solo dal punto di vista professionale ma anche a livello umano. Taketo è uno che ti guarda negli occhi, che ti ascolta e riesce a capire esattamente quello che hai dentro. I giorni in studio li ho vissuti come un gioco, tant’è che quando abbiamo finito di registrare avevo subito voglia di fare un altro disco, cosa che normalmente non accade dopo settimane in cui annulli la tua esistenza chiudendoti in una stanza di pochi metri quadrati. Onestamente spero davvero di poter continuare a collaborare con lui in futuro».
Facciamo un salto indietro nel tempo, come e quando ti sei avvicinato alla musica?
«Alla musica mi sono avvicinato all’età di nove anni, spesso mia mamma strimpellava in casa una tastierina, io mi mettevo sulle sue ginocchia, ascoltavo e ad orecchio cercavo di ripetere i vari motivetti che passavano per radio. Da lì mia madre mi comprò un pianoforte vero e, così, il mio modo di vedere le cose è completamente cambiato».
Quali ascolti hanno ispirato e accompagnato il tuo percorso?
«In assoluto i grandi cantautori italiani, che sono stati i miei padri putativi, mi hanno preso per mano ed insegnato molto di più di quello che si può apprendere a scuola. A dodici anni Ivano Fossati mi ha cambiato la vita, poi ho scoperto Giorgio Gaber, Roberto Vecchioni, Fabrizio De Andrè, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, perché sono sempre stato affascinato dal loro modo di utilizzare le parole».
Con quale spirito ti affacci al mercato e come valuti il livello generale dell’attuale settore discografico?
«I tempi sono cambiati e dobbiamo abituarci, la musica si ascolta e si acquista in un altro modo, fare resistenza contro questo mercato non serve a niente, bisogna stare al passo coi tempi. Certo, personalmente, mi sento molto più legato al vecchio modo di intendere la discografia, anche se non ne ho mai fatto parte, se non passivamente attraverso i miei ascolti. Forse, bisognerebbe fare di più per riportare la musica ad essere di nuovo ascoltata con la giusta attenzione, qualsiasi genere indistintamente. Il web rappresenta uno spazio molto democratico, chiunque può mettere in rete una propria produzione, una cosa tanto bella quanto pericolosa perché permette a tutti di proporsi, anche a chi non possiede gli strumenti e, di conseguenza, l’intero settore ne risente qualitativamente».
Il grande quesito che ti pongo è proprio questo: se oggi nascesse un nuovo Ivano Fossati, il mondo se ne accorgerebbe?
«Forse una piccola fetta di pubblico e non subito, purtroppo. Per fortuna ci sono alcune importanti eccezioni, vedi Brunori Sas, anche se ci ha messo vent’anni per farsi notare. È un fattore culturale, se ci pensi negli anni ’70 a riempire gli stadi erano Francesco De Gregori e Lucio Dalla, oggi al massimo farebbero tournée teatrali. Prima c’era un’attenzione diversa, ma credo che ritornerà perché è un discorso ciclico, vanno bene il rap l’hip-hop e la trap, ma la nostra vera identità è rappresentata dalla canzone d’autore».
Per concludere, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso questo disco e la tua musica in generale?
«Che il dolore serve e deve essere raccontato. E’ giusto che la musica sia l’espressione del divertimento e dello svago, ma c’è anche bisogno di tirare fuori gli aspetti più introspettivi e profondi del nostro essere umani. Alle canzoni senza contenuto preferisco quelle tristi, perché ti permettono quantomeno di immedesimarti, di crescere e di instaurare un dialogo con te stesso. Il messaggio che vorrei dare con questo disco è quello di affidarsi al dolore per ritrovare la gioia».
Nico Donvito
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