A tu per tu con il cantautore emiliano, in uscita con l’album “Il mio gioco preferito – Parte Prima”
Anticipato dai singoli “Mi farò trovare pronto“ e “La storia del mondo“, arriva negli store a partire dal 10 maggio “Il mio gioco preferito – Parte Prima“, il nuovo progetto discografico di Filippo Neviani, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Nek. Prodotto e arrangiato dallo stesso artista insieme a Luca Chiaravalli e Gianluigi Fazio, l’album è un chiaro e sentito ritorno alle origini, all’essenzialità del suono che ha caratterizzato la prima iniziale della sua straordinaria carriera. Un progetto suddiviso in due parti, la seconda vedrà la luce in autunno, un modo per allungare il discorso in un’epoca in cui si consuma tutto e subito, il tutto impreziosito da una curiosa copertina che esprime il senso metaforico dell’intero lavoro, perché la vita è fatta di incastri e non sempre si riesce a far combaciare tutto.
Ciao Filippo, partiamo da “Il mio gioco preferito – Parte Prima”, il tuo quattordicesimo album di inediti, cosa racconta?
«Storie che ho ascoltato e fatto mie, storie che mi hanno attraversato la vita, perché credo sempre che un cantautore sia prima di tutto un portavoce di emozioni, ma c’è anche molto di autobiografico. Come per ogni mio album, anche questo rappresenta una fotografia di me, che ho il piacere di mostrare ancora una volta al pubblico. Ogni volta che si rilascia un disco ci si mette un po’ in gioco, ho deciso di farlo con una nuova consapevolezza e l’entusiasmo di sempre».
Meno elettronica e più strumenti, hai voluto dare un’impronta analogica a questo lavoro?
«Si, ho proprio sentito la necessità in corso d’opera, sin dalla fase di scrittura delle canzoni, di togliere piuttosto che aggiungere, lasciando possibilmente gli strumenti suonati, veri. Un gioco elettronico chiaramente è rimasto, però molto meno presente rispetto all’ultimo disco pubblicato tre anni fa, ho proprio voluto ritornare alle origini, sintetizzare».
Quindi, se ti chiedessi a quale tuo album precedente si avvicina di più e a quale si distanzia maggiormente?
«Si allontana di più sicuramente da “Unici”, il lavoro precedente dove c’era parecchia roba elettronica, e probabilmente strizza l’occhio a quello che fu il mio quarto disco, che poi considero il primo realmente a fuoco, ovvero “Lei, gli amici e tutto il resto” del 1996, perché era fortemente e volutamente analogico, naturalmente parliamo di altri tempi, ormai ventitré anni fa».
Se dovessimo suddividere il tuo percorso in più parti, si partirebbe dal primo tempo degli anni ’90, per poi passare al secondo dei primi ’00, fino ad arrivare nell’attuale terzo tempo, che poi è quello in cui te la godi di più, proprio come nel rugby. In che fase della tua carriera ti senti?
«Nella fase in cui mi diverto molto più oggi rispetto al passato, avverto maggiore entusiasmo rispetto a quando ero più giovane perché mi accorgevo meno dei dettagli. Oggi, invece, l’età e la paternità mi permettono di vedere il mondo con occhi diversi, pur continuando a coltivare il desiderio di mettermi costantemente alla prova musicalmente, elemento che alimenta quotidianamente il mio entusiasmo».
Quali sono gli aspetti del tuo mestiere che ancora ti affascinano ed entusiasmano?
«Il fatto di essere un musicista e potermi misurare ogni volta con una canzone nuova, cercando di stare al passo coi tempi pur senza snaturarmi, un processo non facile, sotto questo punto di vista è fondamentale la condivisione con gli altri, co-responsabilizzando le persone che fanno parte della mia vita professionale, perché il lavoro di squadra è fondamentale e trovo sia un bel modo di vedere le cose».
Quanto ti lasci influenzare da quello che c’è intorno?
«Diciamo che tutto ciò che mi circonda lo osservo, cercando di capire se può essere costruttivo o meno per me. In parole povere, non voglio fare a tutti i costi il giovane perché non lo sono più, ma non mi reputo nemmeno vecchio perché non appartengo ad una generazione precedente alla mia. Cerco di fare il mio, sono consapevole che oggi molti ragazzi della nuova generazione ascoltano altro, ma nonostante tutto dopo ventisei anni sono ancora qua, consapevole che ci sono stati dei momenti di difficoltà, che ci sono state delle rinascite, ma questo mestiere è fatto di continue ripartenze, bisogna saper ricominciare, perché la longevità è la cosa più complicata da gestire».
© foto di Luisa Carcavale
Analizzandola a distanza di qualche mese, qual è il bilancio della tua ultima partecipazione sanremese?
«In realtà non mi ho fatto un bilancio vero e proprio, di certo mi sarei aspettato qualcosa di più, ma questo è un mestiere imprevedibile, le incognite vanno messe in considerazione. Col senno di poi, se fossi nella condizione di scegliere di andare al Festival con la lista finita dei pezzi di questo EP, oggi probabilmente opterei per “La storia del mondo”. Quando scelsi “Mi farò trovare pronto” ero in una condizione diversa, in quel momento ho sentito che fosse il pezzo giusto, proprio perché non la considero una canzone molto sanremese. Amo rischiare, sono fatto così, non posso fare altrimenti».
C’è stato un momento, precisamente quando hai inciso “Se telefonando”, che mi sono detto: “ecco, ora Nek tira fuori un disco di cover”. Cosa ti ha frenato tuttora?
«Semplicemente l’idea che l’hanno fatto in tanti, ti dico la verità, sarebbe stato qualcosa di prevedibile, per carattere cerco sempre di sfuggire dalle cose scontate. All’album di cover c’ho pensato diverse volte e probabilmente, prima o poi, arriverà. Per un certo periodo è andato di moda riarrangiare le canzoni in maniera acustica o con l’ausilio dell’orchestra, un qualcosa che mi piacerebbe, così come mi emozionerebbe realizzare un concerto da solo, un one man band, proprio come facevano Edoardo Bennato o Alex Britti.
Ci sono tantissime idee che vorrei in futuro concretizzare, sono lì nel cassetto, proprio come l’album di cover. In quel periodo in cui tu c’hai pensato, probabilmente l’ho fatto anch’io, ma l’ho considerata un’operazione abbastanza immaginabile e a me non piacciono le cose facili, se c’è qualcosa che ammazza questo mestiere è la poca capacità di sorprendere chi c’è all’ascolto».
Nico Donvito
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