A tu per tu con il noto cantautore e musicista, in uscita con il suo decimo album “La fine di tutti i guai“
Tempo di nuova musica per Sergio Cammariere, pianista e uno dei massimi rappresentati della canzone d’autore che, nel corso della sua longeva carriera, ha pubblicato 10 album e 18 colonne sonore, ottenendo numerose gratificazioni professionali, a cominciare dal Premio Tenco per l’album “Dalla pace del mare lontano” al Premio della Critica Mia Martini ottenuto a Sanremo 2003 con il brano “Tutto quello che un uomo“, senza tralasciare i prestigiosi riconoscimenti ricevuti a livello internazionale. “La fine di tutti i guai” è il titolo del nuovo disco, che segna la sua definitiva consacrazione pop.
Ciao Sergio, partiamo dal tuo nuovo album “La fine di tutti i guai”, cosa racconta?
«È un viaggio musicale che racconta storie spaziando tra i generi, si passa dal blues al jazz, dal rock al soul, il tutto legato da un unico filo conduttore: l’amore, con tutte le latitudini e le longitudini di un sentimento al quale ci dobbiamo arrendere, perché si tratta di una forza più grande di noi. È un disco in qualche modo diverso dagli altri, ma che segue comunque un principio di continuità, alla base sono spinto sempre da una grande curiosità, dalla voglia di sorprendere attraverso gli arrangiamenti dei vari brani che, in questo caso, si avvicinano un pochino di più al pop. L’aspirazione e le premesse sono le solite, tutto parte dalle mie composizioni pianistiche».
Al tuo fianco, come sempre, Roberto Kunstler. Il vostro è un longevo sodalizio che prosegue dai primi anni ’90, quali sono gli aspetti che mantengono viva questa bella collaborazione?
«Sicuramente l’amore verso la poesia, oltre che la musica stessa. Insieme cerchiamo di creare delle canzoni che rimangano nel tempo, non pezzi destinati ad una sola stagione, bensì brani che ci auguriamo possano essere ricordati come quelli dei nostri grandi maestri e predecessori. Questo non sempre accade, la nostra è una nobile ambizione, con “Tutto quello che un uomo” ci siamo riusciti, a distanza di 16 anni dalla sua pubblicazione si tratta di uno dei brani più coverizzati in Italia e non solo, arrivano incisioni anche in altre lingue, dal russo al cinese. Alla fine lo scopo di ogni musicista è proprio questo, fare in modo che le proprie canzoni siano fruite nello spazio e nel tempo, regalando a più persone possibili un momento di serenità».
Quando hai capito che la musica avrebbe influenzato totalmente la tua vita?
«Beh avevo già sette-otto anni, ero veramente un bambino (sorride, ndr), facevo la seconda elementare a Crotone, il caso ha voluto che entrassi a far parte di un coro di voci bianche con ben quaranta elementi diretti dal maestro Giuseppe Campagna. Da lì è iniziato il mio percorso che mi ha portato fino ad oggi, faccio questo mestiere da circa quarant’anni, perché lavoravo e guadagnavo con la musica già da ragazzino. Parallelamente mi sono diplomato e mi sono iscritto all’università di Firenze, ma ho sempre fatto pianobar, la mia è stata una lunghissima gavetta, passando all’inizio per le colonne sonore fino ad arrivare alle canzoni vere e proprie».
Quanto sei legato alla tua terra? Sei nato in Calabria, anche se romano d’adozione…
«Ogni persona è legata alle proprie radici, ogni volta che ci torno ritrovo una sorta di triplice tempo, per dirla alla Guénon, riscopro il passato, il presente e il futuro. Tornare giù per me è come una rinascita, un nuovo inizio, anche se ci vado molto raramente, pensa che dal ’79 sarò tornato una decina di volte, non è capitato spesso. Roma è diventata la mia città d’adozione, che ho voluto omaggiare nel video del brano “La fine di tutti i guai” che uscirà a breve, una clip animata molto ricca scritta e diretta da Cosimo Damiano Damato, al suo interno ci saranno personaggi anche inconsueti, da Dante a Che Guevara, passando per Alberto Sordi, Margherita Hack, Alda Merini, Gabriella Ferri, Anna Magnani, Pier Paolo Pasolini, Maria Callas, Totò, Frida Kahlo e tanti altri».
La musica ha un grande potere evocativo, personalmente ogni volta che ascolto “Dalla pace del mare lontano” scorrono immagini nella mia mente, vedo posti, sento profumi e mi lascio trasportare dalla melodia. Non credi che ultimamente venga data troppa importanza alla parola, che si punti tutto sui testi, poco sugli arrangiamenti e che questo vada a discapito delle emozioni e delle suggestioni?
«La musica è evocativa, il suo potere è maggiore rispetto a quello della parola, perché trasmette più profondità. Il linguaggio utilizzato nelle nuove produzioni è completamente differente da quello del passato, se ascolto oggi una composizione di Igor Stravinsky continuo a sentire gli stessi sussulti, così come per le opere di Fabrizio De André o Francesco Guccini. Al tempo stesso, sono sempre affascinato dalle nuove correnti artistiche, quando nella musica classica è arrivata la dodecafonia all’inizio nessuno ci capiva un granché, piano piano l’abbiamo assimilata. Chi ha approfondito e studiato la tradizione ha conosciuto ogni tipo di provocazione, la musica di oggi è frutto di ciò che è accaduto ultimamente, purtroppo dobbiamo parlare di un decadimento culturale che non ha a che fare solo con la musica leggera, subiamo un impoverimento globale di contenuti, non è di certo un’esclusiva italiana.
La curva dell’umanità è in involuzione a livello etico, estetico e spirituale, lo avverto sulla pelle, ma non attribuisco la colpa alle nuove generazioni, i ragazzi scrivono e compongono quello che hanno a loro volta appreso. Noi che siamo affascinati dalla poesia di Ungaretti e di Montale, non troviamo niente di nuovo in questo linguaggio, quando un giovane inventa il verbo “screenshottare” andiamo oltre il concetto di lingua italiana. Diciamo che se avessi una figlia di quindici anni le farei ascoltare anche la musica classica e il jazz, oltre a tutto il resto che passa e vive il tempo di una stagione».
Hai partecipato a Sanremo nel 2003 con “Tutto quello che un uomo” e nel 2008 con “L’amore non si spiega”. Considerando il detto “non c’è due senza tre”, ci torneresti?
«Certo che ci tornerei! Ci sono stato già un paio di volte anche come ospite, con Simone Cristicchi nel 2007 e Nina Zilli nel 2018, ma non disdegno in alcun modo la gara, è un’esperienza che rifarei volentieri anche perché è l’unica possibilità per far conoscere un brano a livelli importanti. Le radio non passano i cantautori, preferiscono qualcosa che faccia leva sulle giovani generazioni, di conseguenza la canzone d’autore è diventata poco popolare, ma per fortuna esistono le nicchie perché sono le uniche che possono salvare il mondo. Sono dell’idea che per fermare questa totale involuzione sia necessario tornare allo spirito degli anni ’20, quando nonostante la fine di una guerra e l’imminente inizio dell’altra, sono sorti movimenti culturali che hanno influenzato tutto il ‘900, spingendoci fino al surrealismo e alla beat generation.
Paradossalmente in momenti così delicati e di crisi, l’arte riusciva a conservare e sprigionare i suoi valori. Con il nuovo millennio le cose sono cambiate, internet ha portato ad una notevole rivoluzione, spesso sui social si presta attenzione a notizie futili, prive di spessore. Dovremmo tornare un po’ tutti ad avere la curiosità di ricercare la bellezza, a non fidarci troppo di quello che ci viene proposto. Il consiglio che rivolgo ai giovani è di cominciare ad approfondire la propria conoscenza, dai quartetti di Beethoven alle sinfonie, per arrivare al jazz e al rock. Quando da adolescente ascoltavo i Genesis vibravo, perché all’interno delle loro canzoni c’erano spunti classici, così come nei Queen e in altri gruppi che hanno fatto la storia della musica commerciale».
Oltre alla musica hai anche la passione del cinema, ma è vero che da oltre vent’anni filmi tutti i giorni della tua vita?
«Sì, ho cominciato all’incirca nel ’96, soprattuto nei primi anni riprendevo una sorta di striscia quotidiana, sono stato uno dei primi, posso affermare di aver inventato il selfie (ride, ndr), all’epoca non era altro che una Panasonic con un fisheye sopra che pesava quattordici chili. Sinceramente non so se farò o meno qualcosa con tutto questo materiale, si tratta di migliaia di ore, ho girato una serie di documentari con Roberto Kunstler, Alex Britti e Max Gazzè, che ritraggono tutti i nostri incontri fatti nel tempo. Si tratta del film della mia vita, proprio come quello che sto preparando su Rino Gaetano».
La tua storia con Rino Gaetano è davvero sorprendente, hai scoperto per caso di essere suo cugino quando non c’era più. Com’è andata esattamente?
«Ho conosciuto casualmente la sua famiglia nel ’96, con me avevo la telecamera e ho ripreso l’intero incontro, in quell’occasione mi hanno rivelato questa parentela, mio padre e sua madre non sapevano di essere fratelli. E’ una storia bellissima, che spero di riuscire a trasformare presto in un film-documentario, non è facile, sono alla ricerca di sponsor e persone che mi aiutino anche a restaurare il materiale, perché si tratta di registrazioni realizzate con una semplice analogica. Purtroppo la musica in Italia è finita da quando non ci sono più artisti come lui, Lucio Dalla, Pino Daniele e Lucio Battisti. Nel mio piccolo, attraverso la mia musica, cerco di trasmettere riferimenti e valori a loro affini».
Per concludere, qual è la lezione più grande che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di attività?
«La mia vita è concentrata sulla percezione della musica, tutto il mio essere ruota attorno a questa formidabile forma d’arte, sin da bambino riconoscevo l’altezza delle note, per un dono divino possiedo l’orecchio assoluto, all’età di sette anni ho suonato l’Ave Maria di Schubert sul pianoforte di mia zia durante la festa di compleanno di una mia cuginetta (sorride, ndr). La musica mi ha insegnato a diventare un uomo, a saper ascoltare e cogliere l’infinito».
Nico Donvito
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