Mentre Ligabue affronta un tour con gli stadi mezzi vuoti l’intero sistema musicale crolla sotto i colpi dei “flop” indicibili
Ci siamo. Finalmente ci siamo. Le crepe di quella magnifica struttura costruita attorno (o per meglio dire, sopra) l’industria musicale italiana stanno mostrandosi e preoccupano i vecchi potenti. D’altronde, si sa, chiunque (o quasi) lotta nella propria vita per il raggiungimento del successo, per la ferrea volontà di voler arrivare, di riuscire a scalare con le proprie forze, o con qualche irrinunciabile spintarella, la montagna del potere. E una volta in cima è difficile per tutti accettarne la discesa che spesso si rivela tutt’altro che agevole. Anzi, spesso è una vera e propria frana.
Chi non ha mai visto, almeno in fotografia, lo Schloss Neuschwanstein di re Ludwig II? Il glorioso castello situato a Schwangau, nei pressi di di Füssen, è un vero gioiellino di storia ed architettura tedesca costruito per l’ultimo vero sovrano bavarese tra il 1869 e il 1886 che lo volle ispirato al mondo cavalleresco del medioevo imponendone un fortissimo impatto scenografico sulla valle che si trova a dominare con le sue numerose torri. Per chi non ha mai avuto la fortuna di vedere tale meraviglia dal vivo è sufficiente richiamare alla mente il leggendario castello divenuto per Walt Disney stemma e sigillo. Castello di Walt Disney, uguale Schloss Neuschwanstein. Facile.
Ma che cosa centra tutto ciò con la musica di cui dovremmo occuparci in questo spazio? Ad un primo colpo d’occhio nulla ma, a ben vedere, le assonanze sono numerose. Per rintracciarle, al contrario del modello di uno di quei giochi enigmistici che tanto si praticano d’estate sotto l’ombrellone, basta tracciare il profilo della costruzione in oggetto (e del suo egocentrico costruttore) e confrontarla con la struttura del mercato discografico italiano di oggi. Per cui immaginate insieme a me la discutibile personalità del sovrano baverese, spesso eccentrico e sopra le righe, innamorato del lusso, del potere e dell’assoluta apparenza di prestigio anche quando le circostanze della storia e della politica lo portarono ad essere espropriato di ogni suo bene (ad eccezione dei suoi numerosissimi castelli), titolo e funzione. Immaginate, poi, la struttura mastodontica della musica italiana d’oggi: un vero e proprio castello con torri e torrette al vertice del quale s’è posta un’altrettanta eccentrica figura egemone che negli anni, questo gli va riconosciuto, è riuscita a monopolizzare con le proprie forze l’intero scenario plasmandolo a seconda delle proprie esigenze.
Ebbene, come ogni castello anche quello di Neuschwanstein ha dovuto affrontare negli anni ristrutturazioni di vario genere e lo stesso sembra dovrà accadere a breve al castello della musica italiana. Le crepe, ormai, sono evidentissime e non è detto che nemmeno un puntuale intervento riparatore saprà ripristinare la struttura riportandola al suo antico, ma recente in questo caso, splendore. La scossa, stavolta, è stata davvero grossa.
Ma usciamo dalla favola della Walt Disney e dalla metafora di matrice tedesca per dirigerci in territori meno oscuri. Meno coperti dal cosiddetto “velo di Maya” come avrebbe detto un altro formidabile rappresentante di quella cultura del sogno alla quale il caro vecchio Ludwig II s’ispirò per tutta la vita: Arthur Schopenhauer. Che cosa sta davvero succedendo in questi ultimi giorni alla fragile struttura del mondo musicale italiano? Che cosa sta crollando sotto i colpi inarrestabili del tempo e, verrebbe da dire, della giustizia divina? Tutto, o quasi. Perchè la struttura sotto attacco è quella di Friends & Partners di Ferdinando Salzano che, non è di certo un mistero, rappresenta una fetta piuttosto maggioritaria del catalogo artistico dei nostri giorni. Almeno di quello che conta.
Ne abbiamo già parlato in diverse situazioni (qui gli ultimi aggiornamenti) ma negli ultimi giorni un tassello importante, o per tornare alla metafora una crepa preoccupante, è ulteriormente emerso. Il fatto riguarda ovviamente il buon Luciano Ligabue che da pochi giorni ha dato inizio al suo nuovo trionfale e attesissimo tour negli stadi italiani. Ops, scusate ho dimenticato di non fare copia-incolla dal comunicato stampa. Intendevo dire che Luciano Ligabue ha iniziato da pochi giorni un nuovo tour negli stadi. Niente di trionfale o attesissimo. Ma mettiamo sul tavolo tutte le carte: Ligabue, l’album da promuovere è Start, l’agenzia che organizza il live è Friends & Partners, il Festival di Sanremo è stato l’evento massimo (cosa meglio di 10 milioni di spettatori in media su cui esercitare una gloriosa pubblicità?) della promozione. Il fatto è che alla prima data del tour, partito questa volta dal San Nicola di Bari, i biglietti venduti sono stati meno della metà. Impossibile sapere i numeri certi ma si mormorano appena 20 mila biglietti staccati sui 50 mila disponibili. C’è chi dice che siano stati ancor meno ma occorre tener presente le varie operazioni consuetudinarie che, in simili circostanze, l’agenzia organizzatrice dell’evento sembra operare secondo gli ultimi racconti emersi dei servizi realizzati da Striscia la Notizia. Insomma, i biglietti omaggio un po’ per tutti. Giusto per riempire la scena insieme alla brillante idea di spostare il palco all’ultimo momento schiacciandolo verso la curva per ridurre lo spazio vuoto. Il colpo d’occhio vuole la sua parte, lo pretendeva anche il re Ludwig per il suo Neuschwanstein figuriamoci se non lo si richiede anche in tali situazioni.
Il Liga, poi, ha ammesso sui propri canali social che alcune date del nuovo tour non abbiano raccolto i risultati attesi (dall’agenzia, ovviamente) per quel che riguarda il numero di spettatori. Fa niente, la voglia di cantare rimane la stessa. E invece fa niente un’emerita minchia. Uno spettacolo di tali dimensioni ha dei costi che vanno rimessi in pareggio (e, obbligatoriamente, in guadagno) con il numero di biglietti staccati e se già era difficile farlo quando un numero sostenuto di biglietti veniva regalato (obbligando, naturalmente, ad innalzare il prezzo di chi il biglietto lo compra davvero) figuriamoci ora che i numeri sembrano essere precipitati. Insomma, ammettiamo pure il flop, perchè di flop si tratta, e iniziamo a pensare ad un netto ridimensionamento di aspettative per il futuro. Sempre se ce ne sarà uno e sempre se il prossimo album del Liga sarà di questo livello traballante.
Tra pochi giorni partirà anche il tour-evento dell’anno, quello di Laura Pausini e Biagio Antonacci. I soggetti sono diversi, il pubblico anche come la musica di riferimento ovviamente ma gli attori dietro le quinte sono i medesimi. Per loro niente Festival di Sanremo per la promozione ma ben due singoli radiofonici insieme, qualche ospitata di lusso in TV e spazi televisivi dopo il TG che solo loro puntualmente hanno a disposizione. Nessuna delle tappe è sold-out ad ora e analizzando le piantine (parziali) visibili sul sito di Ticketone, l’unica piattaforma autorizzata alla vendita, siamo ben lontani da un annuncio di glorioso successo. Michele Monina, collega di prim’ordine a cui va dato il merito di essere stato sempre in prima linea nella denuncia di tali operazioni, parla addirittura di appena 100 mila biglietti venduti su un totale di 450 mila posti disponibili (qui per recuperare l’articolo). Eppure son due delle star più grandi della nostra musica pop e nemmeno la scusa che i loro rispettivi pubblici non sono interessati ad assistere ad un concerto dell’altro artista regge davvero. Il flop sarà evidente anche in questo caso.
Stessa sorte è toccato a Raf e Umberto Tozzi, il tour-evento per gli spettatori più “maturi”, che prima ha slittato le date e poi le ha addirittura annullate. Stessa strategia, ovviamente, anche per Gigi d’Alessio e Nino D’Angelo che dovevano coinvolgere l’intera Napoli per 3 date uniche in questo giugno ma che, per un motivo piuttosto evidente a questo punto, si terranno (forse) a settembre.
Flop. Non c’è altra parola per definire tutto ciò. Eppure la parola flop appare impronunciabile. Impronunciabile per i fan più accaniti di uno o dell’altro artista che si ergono ad avvocati difensori chiamando in causa l’onestà intellettuale del proprio beniamino ad ammettere un mancato successo (non un flop badate bene ma un “mancato successo”) o le difficoltà generali degli artisti italiani di oggi sulle vendite (peccato che Vasco sigli 6 sold out consecutivi a San Siro senza magheggi e che molti altri artisti, realisticamente, si concedono alle location più adatte al proprio riscontro oggettivo). Impronunciabile, poi, per gli stessi artisti che su Twitter sono pronti a rispondere per le rime a chi, un po’ maleducatamente (ma con ragione), gli mette la verità dei fatti sotto gli occhi. Impronunciabile logicamente per gli uffici stampa, i manager ed i discografici che appena leggono in rassegna stampa un titolo diverso da quello scelto per il proprio comunicato da copia-incollare obbligatoriamente azzannano la cornetta del telefono e fanno intendere naturali e dovute esclusioni nei futuri incontri promozionali che verranno organizzati. D’altronde l’obiettivo non è promuovere la musica come il senso del loro lavoro detterebbe ma “imporre” fantomatiche verità a cui credono soltanto loro. Flop. Esattamente di questo si tratta e non è una brutta parola. O meglio, lo è ma è una semplice constatazione della verità oggettiva.
Insomma, gli stadi italiani son mezzi vuoti, le crepe diventano sempre più preoccupanti ma per ora il mastodontico gigante dell’industria musicale che conta rimane in piedi. Fate attenzione, ho parlato di industria musicale: la musica è già crollata da parecchio. Lo Schloss Neuschwanstein è testimone di un’apparenza di gloria e potere che mai si verificò davvero ed il suo vecchio sovrano, re Ludwig, fu spodestato, dichiarato pazzo e (forse) assassinato (o, forse, si suicidò) in poche ore. Toccherà la stessa fine a chi finora ha giocato con le sorti dell’arte musicale italiana legando i propri artisti a dei fili impercettibili per farne delle marionette insensibili non solo sul piano manageriale ma, soprattutto, su quello artistico? Il problema è che quando il castello crollerà, e fidatevi che crollerà, gli artisti chiamati “big” si troveranno con il culo a terra, la schiena senza colonna vertebrale e le palle, quelle necessarie a rimboccarsi le maniche e tornare a combattere (e scrivere degne canzoni) davvero, del tutto svuotate. E intanto il pubblico imparerà a guardare altrove. Speriamo dalla parte giusta stavolta.
“Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!“. Lo scriveva nella sua ‘La gaia scienza’ (aforisma 125) il buon Friedrich Nietzsche, l’ideatore tedesco del Superuomo (e qui qualcuno vi si è sentito l’incarnazione) ed il filosofo che, come Ludwig II, amava Wagner e fu condannato alla pazzia. Il cerchio si chiude. Ouroboros.
Ilario Luisetto
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