A tu per tu con il talentuoso cantautore, fuori con due nuove versioni de “Il giardino degli inconcludenti“
Nella grande Foresta Amazzonica della musica leggera italiana c’è un piccolo giardino che continua a crescere rigoglioso, con la giusta cura che si deve per le cose belle. A distanza di qualche mese dal nostro ultimo incontro, torniamo a parlare di Pasquale Battista, in arte Hale, cantautore e musicista classe ’95 che sin da subito ci ha colpiti per la sua innata sensibilità musicale, per l’intuito comunicativo e per la determinazione con cui affronta a testa bassa le difficoltà dell’industria discografica. “Il giardino degli inconcludenti” è il titolo del suo album d’esordio (qui la nostra intervista a riguardo) pubblicato lo scorso anno, passato impunemente inosservato dal grande pubblico, seppur abbia ottenuto buoni numeri a livello di streaming e di view, soprattutto se consideriamo l’attuale realtà emergente. L’artista salernitano, insieme alla sua etichetta Melody Studio Recording e al produttore Michelangelo Tagliente, ha deciso di pubblicare due nuove versioni del disco, una completamente riarrangiata e l’altra piano e voce. Scopriamone di più con il diretto interessato.
Ciao Pasquale, bentrovato. Partiamo da “Il giardino degli inconcludenti”, il tuo album d’esordio pubblicato lo scorso anno, a cui hai scelto di dare una seconda e una terza vita con ben due nuove versioni, com’è nata questa idea?
«Innanzitutto ci tengo a sottolineare che la versione riarrangiata non è altro che quella definitiva, ovvero quella che questo disco secondo me meritava, ma che non siamo riusciti a realizzare in maniera così completa per una questione di tempistiche. Per quanto riguarda la versione piano e voce, invece, si tratta della visione notturna dell’album, perché tutti i miei brani nascono di notte, nella solitudine della mia stanza con il pianoforte. Quello che abbiamo cercato di fare, insieme al mio produttore Michelangelo Tagliente, è ricreare in studio quel tipo di atmosfera intima e molto più sentita, dove viene dato maggior risalto ai testi, essendo gli arrangiamenti molto più scarni, i pezzi si possono ascoltare in tutta la loro pura essenza».
Dal punto di vista artistico qual è il senso profondo di questa scelta? Cosa hai voluto far emergere attraverso queste due angolazioni differenti?
«Nella versione riarrangiata viene fuori tutto quello che sono, avendo curato in prima persona anche gli arrangiamenti, mentre nella versione “Di notte” vengo fuori io, completamente a nudo con il mio pianoforte, che considero lo strumento della mia vita, perché mi accompagna da sempre. In questo disco vengo fuori come autore, cantante ma anche come pianista, una componente importantissima per me a livello espressivo, perché mi permette di tirar fuori le mie influenze, infatti, questo album è stracolmo di citazioni nei confronti degli artisti che hanno contribuito alla mia formazione, ad esempio sul finale di “Mentre ascolti la pioggia” c’è un piccolo omaggio a “Sally” di Vasco Rossi. Pianisticamente parlando, nel mio percorso sono stato molto influenzato da Claudio Baglioni, Giovanni Allevi e da un compositore giapponese che si chiama Nobuo Uematsu. Ci tengo a parlare di lui perché è l’autore della colonna sonora di un videogioco che si chiama Final Fantasy, a cui giocavo quando avevo undici anni. Le sue musiche mi hanno sempre colpito, nel tempo le ho studiate e sicuramente mi hanno influenzato a livello di tecnica di suono».
Per quanto riguarda un discorso discografico, in genere si tende a realizzare repack, si buttano dentro un paio di inediti (immagino tu ne abbia a bizzeffe), ma il resto del lavoro lo si lascia uguale, soprattutto se realizzato di recente, non si perdono tempo e denaro in nuovo produzioni. In tal senso, questa operazione stravolge un po’ le regole, soprattutto in un momento così consumistico, in cui un progetto diventa vecchio già dopo pochi mesi. Ti sei sentito in dovere di fermare questo assurdo processo e di allungare la vita a questo tuo primo lavoro, prima magari di concentrarti su altro?
«Esattamente, per fortuna o purtroppo io non seguo le mode, nel senso che volevo dare la giusta visione a questo disco, realizzarlo per come lo immaginavo sin dall’inizio. Sicuramente ho tanti brani inediti nel cassetto, i lavori per il secondo album partiranno a breve, ho già selezionato una quindicina di pezzi, sarà un altro concept, che considero sia padre che figlio de “Il giardino degli inconcludenti”, nel senso che riprenderà dei temi ma spazierà anche in altre direzioni. Onestamente la penso come te, credo che questa possa rappresentare una sorta di inversione di tendenza, non ho voluto realizzare repack e ho deciso di voler allungare la vita a questo progetto, in un’epoca dove se una cosa non funziona si butta e se ne compra subito un’altra, senza nemmeno tentare di aggiustarla. Detto questo, ci sono delle cose che mi fanno ben sperare per il futuro, perché i contenuti stanno tornando a suscitare interesse, in un mondo che apparentemente non è troppo attento alle dinamiche umane. La musica italiana, secondo me, sta vivendo un buon periodo creativo, nel mio piccolo cerco di dare il mio personalissimo apporto».
D’istinto, ti è venuta voglia di mettere mano ai testi o quello che avevi scritto lo riscriveresti uguale anche oggi?
«Non mi sono sentito di cambiare nemmeno una parola, sia perché probabilmente oggi riscriverei le stesse cose, sia perché me le sento cucite addosso. Ricantando i pezzi, sicuramente, quello che emerge è maggiore consapevolezza per quanto riguarda l’interpretazione, soprattutto dopo averli cantati dal vivo nei concerti. Una volta che un brano arriva tra le mani del pubblico gli si può di tanto in tanto cambiare il vestito, ma senza stravolgerlo portandolo dal chirurgo plastico per cambiargli i connotati, sarebbe una mancanza di rispetto nei confronti di chi ha fatto propria una determinata canzone».
Che ruolo gioca la musica nel tuo quotidiano e come scandisce le tue giornate?
«La musica mi sveglia al mattino, precisamente con il suono di chitarra di “Stairway to heaven” dei Led Zeppelin, poi mi accompagna per tutta la giornata. Quando non scrivo studio, suono e faccio mantenimento vocale, comunque sia è sempre una costante delle mie giornate, non c’è un giorno in cui non pensi alla musica. Una volta che le dedichi la vita, diventa quasi una missione da portare avanti, ti senti in dovere di farlo anche nei confronti di chi ti sta intorno e di chi manifesta interesse per quello che componi, il mio obiettivo è quello di non deludere tutte queste persone. Ho tanti motivi per andare avanti a testa bassa, con perseveranza, non potrei mai pensare di trascorre un solo giorno senza fare musica, sognando anche in modo un po’ infantile, questo lo trovo un aspetto affascinante e bellissimo. Piano piano, mettendo i tasselli al posto giusto, sto cercando di ritagliarmi il mio spazio».
Qual è l’aspetto che più ti affascina nella fase di composizione di una canzone?
«Come le parole e le note seguano il loro flusso senza nemmeno rendermene conto, dopo due-tre ore mi sveglio da questa fase di trans e mi accorgo che il foglio non è più bianco. Sembrerà assurdo, ma è questa la magia del fare musica, di scrivere e comporre una canzone: mettere su carta le emozioni, dar loro un nome, inchiodarle per far sì che non vaghino da sole nella stanza in cerca di una forma».
Ultimamente il termine “artista” è un po’ troppo abusato, per quanto ti riguarda quale significato attribuisci a questa parola?
«Per me l’artista è qualcuno che ha qualcosa da raccontare e lo fa a modo suo, creando e donandosi agli altri, senza farlo per seguire una tendenza, una moda o un dettame discografico. L’artista è quello che si sveglia di notte con il bisogno e l’urgenza di creare qualcosa, senza alcun tipo di limitazioni, facendo fondamentalmente quello che gli pare. Oggi come oggi, per convenzione chi canta viene definito “artista”, anche se credo ci sia una linea di separazione tra un ottimo performer e un vero artista. Come diceva Oscar Wilde: “l’artista è il creatore di cose belle”».
Per concludere, dove e a chi desideri arrivare con la tua musica?
«Non mi pongo limitazioni, credo che il mio messaggio possa essere trasversale e abbracciare diverse generazioni, nel senso che parlo di sentimenti universali che possono essere capiti da chiunque, dal ragazzino di dieci anni fino al signore di settanta. Tendenzialmente mi rivolgo ai miei coetanei, ma con un linguaggio non strettamente legato ai tempi, che può essere comprensibile a chiunque, sia oggi che domani. Parlo a chi ha voglia di ascoltarmi, a chi ha qualcosa da recepire».
Nico Donvito
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