A tu per tu con il noto compositore, produttore e bassista dal 1991 in forza negli Stadio
Parlare di musica è sempre un piacere, specie quando l’interlocutore non è soltanto un esperto, ma sopratutto un grandissimo appassionato. Per questo motivo, potrei descrivere quello con Roberto Drovandi un piacevole ed intenso incontro, in cui abbiamo avuto modo di trattare, senza troppi fronzoli, aspetti che riguardano l’arte e la discografia. Dalla longeva militanza negli Stadio, con cui ha vinto un Festival di Sanremo tre anni fa, alle molteplici attività da solista, tra cui il disco “Mondoraro“ del 2016 e l’impegno come produttore della Twins104 Records, label da lui stesso fondata nel 2013. Approfondiamo la sua conoscenza.
Ciao Roberto, la prima domanda che solitamente porgo ad un musicista è: com’è nata la tua passione per questa forma d’arte e in particolar modo per il basso? Uno strumento, diciamo, solitamente tra i meno gettonati…
«Provengo da una famiglia di musicisti, mia mamma da giovane era una cantante lirica e mio fratello, più grande di me di qualche anno, suonava la chitarra in un gruppo rock. All’età di circa nove anni, ho trovato per caso in un armadio uno strumento anomalo, che non conoscevo e che non era una chitarra perché aveva le corde più grosse. Ne sono rimasto da subito affascinato, poi ho cominciato a conoscerne il suono e, piano piano, il basso è entrato a far parte della mia vita totalmente, forse perché è uno strumento che mi si addice abbastanza, in sostanza perché non mi piace essere in prima fila e il basso, nella norma, in una band fa da sostegno. Successivamente, il mio primo vero approccio nel mondo dello spettacolo è stato come backliner di Vasco Rossi, montavo gli strumenti per la sua band, dopodichè ho avuto l’occasione di andare a suonare con Paolo Conte, con lui ho fatto l’intera tournèe del disco “Viaggi organizzati”, esperienza che mi ha aperto un mondo a soli diciassette anni».
Hai iniziato a suonare come professionista nell’82, quanto e come è cambiato il settore musicale in questi 37 anni?
«Sicuramente c’è stato un cambio generazionale, la diffusione così capillare di internet ha permesso a tutti di farsi vedere e ascoltare, i social ti danno la possibilità di metterti in mostra, mentre una volta non era così, si andava per passaparola. Oggi ci sono molte più possibilità, ma anche molte più proposte, di conseguenza meno lavoro, l’intero settore discografico ha avuto un declino a livello di vendite, tranne alcune rare eccezioni è diventato davvero difficile poter vivere di musica. Sostanzialmente la differenza è che prima c’era una sorta di selezione naturale, non tutti avevano i mezzi per realizzare un prodotto, mentre adesso anche il tuo vicino di casa può con un computer realizzare un disco e metterlo online».
In tutto questo il pubblico pensi che si sia adeguato a ciò che, come si suol dire, passa il convento oppure ha ancora fame di qualità e di proposte valide?
«Secondo me il pubblico ha fame di qualità, me ne rendo conto ogni qualvolta che salgo sul palco con gli Stadio. Non siamo belli e non siamo neanche dei fenomeni in realtà (ride, ndr), eppure la risposta della gente continua a crescere nel tempo, grazie soprattutto ad un repertorio intramontabile, fatto di pezzi importanti, per cui il riscontro costante che abbiamo dalla gente è molto positivo, perché riconoscono nella nostra musica suonata qualcosa di autentico, senza escamotage. La cosa che più mi fa piacere è che molti giovani che ci seguono si avvicinano allo strumento, scoprono la voglia di imparare a suonare e non si lasciano abbindolare dall’idea che il mondo della musica sia improvvisazione, ma che la passione e lo studio sono due componenti fondamentali».
Hai fondato la Twins104 Records, label che cerca di dare voce agli artisti che, in questo clima di confusione discografica, non riescono a far conoscere le proprie produzioni. Qual è di preciso la vostra mission?
«Fondamentalmente quella che hai appena detto. L’obiettivo è quello, magari, di portali all’attenzione di una major o di un’etichetta che abbia i mezzi economici giusti per valorizzarli. L’etichetta funge da intermediario, personalmente metto tutta la mia esperienza a servizio di questi ragazzi, perché le multinazionali tendono a puntare sui prodotti già consolidati, su chi è già affermato, non scommettono più sugli emergenti, non c’è più il tempo di formarli e di farli crescere. Oggi come oggi, le realtà indipendenti sono quelle che portano avanti la musica, che creano le proposte del futuro. Proprio per questo motivo i talent show hanno assunto un ruolo così determinante, la Twins104 vuole essere un’alternativa ad un fenomeno che punta più sull’aspetto televisivo che su quello musicale.
Attualmente ci stiamo occupando degli Hotel Monroe, una band molto forte dal vivo che fa fatica a farsi conoscere nell’ambiente discografico, il mio obiettivo è quello di mettere in condizione gli artisti di essere lanciati, di farsi conoscere, senza legarli ad un contratto che, molto spesso, diventa quasi una catena. A breve uscirà anche il terzo singolo di Alex Cadili (qui la nostra recente intervista, ndr), realizzato insieme al chitarrista Roberto Priori dei DangerZone. Alex è un artista che, secondo me, va ascoltato perché lancia un messaggio molto positivo, soprattutto in questo preciso momento storico. Lui parla dell’amore in senso universale ed è importante questo aspetto per combattere il male che c’è in giro, la musica può essere un ottimo modo per contrastarlo».
Alla tua attività di compositore e produttore, alterni con successo la longeva militanza negli Stadio, una delle poche band italiane che suonano, nel senso più elevato del termine. Qual è, secondo te, l’elemento caratterizzante e rafforzativo del vostro gruppo?
«Fondamentalmente il rispetto e la passione per la musica, il nostro gruppo è rimasto in piedi esclusivamente per questo motivo, longevità dettata dal fatto che ci piace suonare e stare insieme sul palco, ci divertiamo come dei ragazzini. Di fatto, conoscendoci da tempo, siamo diventati come una famiglia, con tutti gli alti e i bassi, ma siamo molto uniti. In un band, secondo me, è importantissimo che ogni elemento si senta libero di realizzarsi anche in maniera solista, per quanto mi riguarda ho realizzato nel 2016 il mio primo album “Mondoraro”, che esprime quello che sono come compositore e produttore, mi interessava far emergere questi due aspetti e sono davvero contento del risultato».
Avete partecipato a tre Festival di Sanremo, nel 1999 con “Lo zaino”, nel 2007 con “Guardami” e nel 2016 il trionfo con “Un giorno mi dirai”. Come hai vissuto personalmente queste tre edizioni e qual è tuo pensiero riguardo questa storica kermesse?
«I tre Festival sono stati diversi tra loro, da parte nostra ci siamo andati ogni volta con lo stesso spirito, quando credevamo di avere il giusto brano da proporre, quello che poteva rappresentarci al meglio in quel momento. Nel primo caso, “Lo zaino” è un brano importante che porta la firma anche di Vasco e si è classificato abbastanza bene, al quinto posto, anche “Guardami” era altrettanto valido, anche se quell’annata non abbiamo avvertito una grande attenzione nei nostri riguardi, venivamo da un album che non era andato benissimo.
Onestamente, credo che la vittoria del 2016 con “Un giorno mi dirai” non sia da attribuire esclusivamente al pezzo, bensì ad una serie di cose, tra cui l’omaggio a Lucio Dalla nel corso della serata delle cover. Pur non facendo parte di quella iniziale e storica formazione, riconosco che quell’esibizione è stata una grossa spinta, al punto da richiederci alla fine dell’esecuzione un bis che, essendo una gara, non abbiamo potuto fare (sorride, ndr). Il pubblico ci ha dimostrato tutto il proprio affetto, regalandoci quella vittoria che considero come un premio per una carriera lunga quarant’anni, credo che sia stato un giusto riconoscimento».
Nulla mi toglierà dalla testa che la vostra vittoria, così come era accaduto precedentemente anche per quella di Vecchioni, sia servita per riportare l’anno successivo i big a Sanremo, tra tutti Fiorella Mannoia, perché è stata la dimostrazione che non per forza il televoto tende a premiare le nuove leve o il ragazzo appena uscito dal talent…
«Può essere, sicuramente quello che dici è vero, perché ogni edizione è diversa l’una dall’altra e a Sanremo può succedere davvero di tutto. Semplicemente ci siamo trovati nel posto giusto, al momento giusto e con il brano giusto, gli astri per noi si sono allineati (sorride, ndr), la gente ha voluto premiarci anche per la nostra carriera. Non siamo mai andati al Festival per vincere, anzi ci siamo pure meravigliati, al punto che la partecipazione all’Eurovision Song Contest non era assolutamente calcolata, per cui abbiamo preferito lasciarlo a Francesca Michielin, arrivata seconda con un bel pezzo, che ha funzionato parecchio a livello commerciale, forse più del nostro. Quel tipo di manifestazione era sicuramente più adatta ad un giovane, noi eravamo già soddisfatti così. Personalmente ero molto contento per Gaetano e Giovanni, i due storici fondatori del progetto Stadio, dopo tanti anni avevano ricevuto un riconoscimento così importante. L’ho vissuta in questo modo, più che una vincita personale, un traguardo importante per il gruppo ma soprattutto per i due storici componenti».
Tra i numerosi artisti con cui hai collaborato, quali sono gli incontri che umanamente e professionalmente ti hanno più segnato?
«Tra i nomi che mi vengono subito in mente cito Max Pezzali, Eugenio Finardi e Luca Carboni, tre artisti completamente diversi, ma con ognuno di loro ho avuto un rapporto di sintonia profonda, ho percepito delle cose belle a livello sia personale che professionale. Con gli 883 ho avuto il piacere di lavorarci un pochino più a lungo, in particolare con Max abbiamo fatto una bellissima vacanza insieme in America, ci siamo divertiti molto sulla West Coast, un momento che ricordo davvero con piacere perché avevo da poco perso mio padre. Anche con Eugenio la collaborazione musicale è sfociata in un bel rapporto umano, così come con Luca con cui ho suonato per otto anni nella prima fase della mia carriera».
Tra i brani di maggior successo che hai composto, troviamo “Prima di partire per un lungo viaggio”, cantata da Irene Grandi e firmata insieme a Gaetano Curreri e Vasco Rossi. Com’è nato questo pezzo?
«I brani nascono sempre in maniera diversa, questo pezzo in particolare ha una storia abbastanza strana. Ho composto l’idea nella mia cameretta, realizzando un demo con strofa e ritornello. Ho fatto sentire il provino a Gaetano che, casualmente, aveva da poco ritrovato in un cassetto un testo di Vasco. Mettendo assieme la mia musica e le sue parole ci siamo accorti che le due cose combaciavano perfettamente, questo capita raramente soprattutto in un modo così incredibile, ma alla fine è stato un bel lavoro di squadra, perchè ognuno ha messo del suo come in una catena di montaggio, anche se in maniera piuttosto anomala. Poi è arrivata Irene che l’ha eseguito magistralmente, come co-autore del pezzo non potevo auspicare interprete migliore».
Brano che è contenuto in versione strumentale nel tuo primo disco solista “Mondoraro”, pubblicato nel 2016. Che valore ha per te questo progetto?
«Sicuramente è una delle tracce di quell’a10lbum che mi rappresenta di più, sia a livello di composizione che come produzione. L’idea di realizzare un brano pop in versione strumentale con il supporto del basso elettrico, onestamente, l’ho trovata interessante ed insolita, credo che sia stato un ottimo esperimento che potrei pure ripetere in futuro, riproponendo sulla stessa falsariga anche altri pezzi, chissà».
Tutto cambia così velocemente, in pochi all’inizio anni 2000 potevano pensare che il digitale avrebbe preso così nettamente il sopravvento, che i dischi sarebbero praticamente scomparsi, che l’immagine avrebbe assunto un valore così importante. Da musicista e produttore, come vedi il destino della musica da qui ai prossimi dieci anni?
«Diciamo che non ho la sfera di cristallo, come nessun altro. La mia sensazione è che la musica continuerà a cambiare e ad evolversi, sempre più velocemente. Negli anni ’80 è successa un po’ la stessa cosa, ne parlavo proprio con mia moglie che è una grande esperta di quegli anni. Le produzioni si concentravano esclusivamente sull’elettronica e sembrava che la musica suonata fosse finita, soprattutto per quando riguarda la ritmica, si prediligeva la batteria elettronica, il basso elettronico, andavano molto i synth, le chitarre erano praticamente sparite, si seguiva completamente un altro modello.
In realtà non finisce mai nulla, c’è sempre un’evoluzione, un ricambio e, a volte, anche delle inversioni di rotta. E’ la storia che ce lo insegna, da Mozart in poi tutto si è rinnovato costantemente, da sempre tendiamo a dire che quello che c’era prima era meglio, molto probabilmente nel 2035 diremo: “ah, com’era bella la musica nel 2019”. Ogni periodo artistico che viviamo è strettamente legato alla società, a quello che ci succede attorno, ad esempio negli anni ’70 si respirava un clima di rivoluzione, quindi la chitarra distorta era un modo per gridare al mondo il dissenso contro tutte le guerre e i disagi dell’epoca, un modo nuovo di comunicare che, naturalmente, non era stato capito da chi proveniva dagli anni ’50. Per cui, anche in quello che si sta producendo adesso c’è del buono, probabilmente lo scopriremo con il passare del tempo».
Per concludere Roberto, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica?
«La gioia di vivere, può sembrare retorica, però chi produce un brano percepisce emozioni che cerca di incanalare per trasmetterle al pubblico. Fondamentalmente, la musica è gioia».
Nico Donvito
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