A tu per tu con il duo electro-pop romano, in uscita con l’album d’esordio intitolato “Che diamine“
A poche settimane di distanza dalla precedente intervista realizzata in occasione del lancio del singolo “Via del Macello”, ritroviamo i Diamine (al secolo Andrea Purpura e Niccolò Cesanelli) per parlare del loro album d’esordio, intitolato “Che diamine”. In occasione di questo lancio abbiamo raggiunto via Skype il cantante del duo, per approfondire la conoscenza della loro visione musicale.
Ciao Andrea, bentrovato. Partiamo dal vostro primo progetto discografico “Che diamine”, com’è nato e come si è evoluto il processo creativo di questo lavoro?
«E’ un disco con alle spalle una lunga gestazione, siamo partiti da alcuni provini con l’idea di cambiare genere, io e Niccolò siamo due strumentisti che provenivamo da un altro mondo, ci siamo addentrati nella musica elettronica senza conoscerla veramente. E’ stato un periodo di sperimentazione, abbiamo lavorato in preproduzione in casa, per poi collaborare con Federico Nardelli e Ivan Antonio Rossi per la chiusura finale del disco. E’ stata un’avventura completamente nuova per noi, sicuramente molto divertente».
Si tratta di un disco ponderato, in ogni parola e in ogni suono, un album vivo. Quali situazioni e quali sentimenti hanno influenzato e contaminato queste dieci tracce?
«Gira tutto intorno alle relazioni, perchè in fin dei conti il nostro benessere deriva dalla qualità dei nostri rapporti, sentimentali o meno. E’ difficile riuscire a raggiungere un benessere autonomo, i greci dicevano “chi vive solo o è Dio o è bestia”, io non sono nè uno nè l’altro naturalmente (sorride, ndr). E’ un disco che ruota attorno all’amore e alla mancanza d’amore, principalmente».
A livello musicale, invece, un approccio cantautorale sposa l’elettronica, dando vita a un bel connubio, che immagino non sia stato facile da equilibrare. Come siete arrivati a questo risultato?
«Dall’unione di due persone, Niccolò si occupa della musica e io dei testi, poi io critico la musica e lui i testi, quello che esce da questa “battaglia artistica” sono canzoni che diventano di comune entusiasmo. Noi siamo amici da tanti anni, ci conosciamo dalle scuole medie, ma non avevamo mai avuto un progetto tutto nostro, lavorando insieme ci siamo contaminati a vicenda. L’incontro e, a volte, lo scontro di due persone sono stati fondamentali».
Le uscite discografiche ai tempi del Covid-19, voi avete deciso di pubblicare comunque questo lavoro, di non rimandarlo, come magari hanno fatto altri. Come avete maturato questa decisione?
«Avevamo deciso per questa data, prima del Coronavirus, poi ci siamo chiesti perchè non rispettarla, anche perchè è un periodo in cui siamo tutti a casa, un bel momento per ascoltare musica. Personalmente mi piaceva l’idea che uscisse ugualmente, proprio perchè ci teniamo molto, avrebbe fatto piacere anche a me sentire un disco nuovo degli artisti che più apprezzo in questo preciso momento».
Nella nostra precedente chiacchierata, mi ha molto colpito una tua frase, ovvero: “Chi ha già tutte le risposte ha sicuramente sbagliato le domande”. Penso che mai come in questo complicato momento lo stiamo capendo. Analizzando l’attuale situazione, che domande ti fai e che risposte ti dai?
«La natura, ad un certo punto, ci è venuta a ricordare la sua supremazia, per quanto noi crediamo di poterla gestire, forse ci siamo un po’ dimenticati che siamo sempre una parte di essa, non possiamo prescindere dalla biologia del nostro corpo o dalla fisica dell’universo. Mi faccio la domanda: “Abbiamo capito, quindi, cosa sta succedendo? Di che cosa facciamo parte?”. A me sembra che siamo diventati un po’ presuntuosi nell’idea di poter gestire il pianeta solo secondo i nostri bisogni, cominciare a trattare il mondo come qualcosa da non buttare via sarebbe un segnale di rispetto. Il virus non è certo una cosa positiva o che si poteva augurare, però ci sta dicendo qualcosa, qualcosa che dovremmo ascoltare».
Credi che riusciremo a sviluppare degli anticorpi almeno per la paura? Tutto questo ci renderà una società più forte o più fragile? Con più angeli o con più demoni?
«Guarda, io non lo so, è un discorso interessante. Da una parte ho il sogno che queste cose siano utili, dall’altra mi rendo conto che non c’è voglia di ascoltare e guardare quello che succede. Credo che quello che abbiamo vissuto sia stato un trauma per chiunque, il fatto di restare chiusi in casa per così tanto tempo, spero che ci venga la nausea dei rapporti virtuali, che si sia rivalutata l’importanza del vedersi dal vivo, stare insieme fisicamente e guardarsi negli occhi. Mi auguro che questa sia un’occasione di riflessione per tutti».
Per concludere, a chi si rivolge oggi la vostra musica e a chi vi piacerebbe arrivare in futuro?
«Io mi immagino degli ascoltatori dal futuro, che non so come sono fatti. Quando scrivo mi rivolgo alla natura, a una qualche entità che a volte credo sia me stesso, a volte non lo è. Ho scritto per ragazze immaginarie, per esempio, molte canzoni d’amore sono state scritte per donne che non sono mai esistite. Penso che ognuno quando scrive ha qualcuno a cui si rivolge, per me è un’entità che non ho ancora definito».
Nico Donvito
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