Una canzone, un libro: insieme
“Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto? Alzarmi stamattina, disse”.
Prendete il mondo, o per lo meno tutto ciò che conoscete di esso. Poi toglieteli ogni briciolo di umanità e dolcezza. Lasciatelo spoglio senza l’ombra di animali, natura e civiltà. Solo polvere, grigiore e tanto, troppo freddo. In questo modo avrete in mano il libro “La strada” di Cormac McCarthy. Dopo un evento catastrofico che non viene mai spiegato, l’umanità è ridotta a pochi individui, per lo più branchi di cannibali, che cercano cibo. Tutti nomadi in un mondo che non è più una casa, ma una stella morente che non conserva più lo splendore e la luce di un tempo.
Non sarebbe la trama più originale scritta per un romanzo, se solo non fosse che al centro ci sono loro due, i due protagonisti: l’uomo e il bambino. Non hanno neanche un nome, come nessun altro nel romanzo. Vanno in giro con un carrello della spesa e con dei vestiti sudici e rotti che (dovrebbero) coprirli dal freddo. E tutta la penna di Mccarthy gira lì, in quel rapporto padre e figlio, intorno alla devastazione del mondo e dell’umanità tutta. Da una parte l’uomo, che non la smette di avere incubi, e che si sveglia col terrore di perdere il bambino, l’ultima sua speranza in questo mondo di sogni infranti. Come dice lui “il bambino è la voce di Dio, altrimenti Dio non ha mai parlato.” Infatti dall’altra parte abbiamo questo ragazzino di dieci anni, che per tutto il libro fa quello che fanno i bambini di dieci anni: cercare il bello del mondo.
Perciò i dialoghi sono semplici, crudi. A un passo solo dal cadere nella banalità, ma quel tanto che basta per essere indelebili. Così che tu leggi il libro e lo avverti veramente, il freddo, la fame, la paura. Ma ciò che avverti di più è la tentazione che ora, quei due ultimi bricioli di umanità, alla fine, si arrendano. E come potrebbero fare altrimenti? Come e dove si fa a trovare la forza di andare avanti? Una risposta la da il padre a il figlio, quando stanno morendo di fame – come sempre nel libro – sotto una pioggia subdola come è subdolo questo un mondo gelido:
“Noi non mangeremo le altre persone e non ci arrenderemo perché portiamo il fuoco”
“Portiamo il fuoco”
“Si”
“Quindi siamo i buoni?”
“Si”
“E lo saremo per sempre?”
“Si”
“Ok”
“Ok”
Un dialogo che ricorda molto una canzone che parla proprio di un mondo buio e pericoloso, e che appunto si intitola come il libro di Mccarthy: Sulla strada di Francesco De Gregori. Anche qui pianti e stridori di denti. Una strada che suda e che si perde ad ogni passo. Un’umanità che cammina verso non si sa dove ma solo su cosa: sempre sulla strada.
Così come la malinconia della canzone, anche nel libro si ha quella sensazione di vivere come i due protagonisti: da una parte la paura di non essere all’altezza nel prendersi cura degli altri; dall’altra invece la tentazione di arrendersi ad un mondo che non è adatto ai sogni di un bambino. Una disperazione che cammina, su tutto il tragitto della strada fino ad arrivare laddove tutto finisce e tutto si fa mistero.
L’unico modo di portare il fuoco e non arrendersi alla vigliaccheria di questo fato. L’unico modo di dare colore a questo mondo grigio. L’unico modo di ridare al mondo un suo briciolo di umanità. Che dopo aver letto questo libro, un briciolo di umanità, in tempi come questi, è la cosa più fragile e preziosa che ci possa essere.
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