venerdì 22 Novembre 2024

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Letteratura a 45 giri: “Un ricordo di Natale” – Truman Capote e Brunori Sas

Una canzone, un libro: insieme

Caro lettore, oggi come ben sai è il 31 dicembre, ed è ovvio quindi, dato il mio essere sempre sul pezzo, che parleremo di un racconto riguardante il Natale. Si lo so, lo so, il mio compagno di avventura con cui condivido questa rubrica ha già scritto un bell’articolo su questo argomento, ed io farei meglio a parlare di un libro che tratti del Capodanno, farvi gli auguri ed infine aspettare le 21.45, mangiare una fetta di panettone, bere un calice di spumante e andare a dormire.

Ma non posso farlo. Non posso scrivere un pezzo sul Capodanno per tre semplici motivi:

  1. non mi viene in mente nessun libro che ho letto che sia ambientato all’ultimo dell’anno o che almeno si riferisca in qualche modo a quel giorno;
  2. ho letto il breve racconto di cui parleremo oggi negli ultimi giorni ed è quindi freschissimo nella mia mente;
  3. ed infine la ragione più profonda di tutte: preferisco di gran lunga il Natale al Capodanno.

Quindi, senza ulteriori indugi, vi svelo il racconto di cui parleremo oggi: Un ricordo di Natale (1956) di Truman Capote.

In verità per settimane mi sono ripetuta che oggi avrei scritto un pezzo su Canto di Natale di Charles Dickens, che amo infinitamente per così tante ragioni che, se ve le dovessi elencare tutte, finirei il 25 dicembre dell’anno prossimo. Se mi doveste chiedere cosa leggere tra Canto di Natale e Un ricordo di Natale vi direi il primo senza pensarci due volte, e anzi forse farei anche quella faccia un po’ scandalizzata che all’altro autore della rubrica dà tanto fastidio. Ma ho voluto oggi parlare di qualcosa che non molti conoscono, di qualcosa di cui non si sente parlare ogni volta che viene aperto l’argomento “libri da leggere nel periodo natalizio”. Tutti, infatti, sanno di cosa parla Canto di Natale; se non direttamente, almeno attraverso qualche rifacimento cinematografico. Personalmente ho fatto la conoscenza di Ebenezer Scrooge attraverso quel capolavoro indiscusso che è Canto di Natale di Topolino (uno dei grandi amori della mia infanzia: bambini di tutto il mondo, guardatelo!). E mi ritengo fortunata di non averla fatta guardando La rivolta delle ex, film che un capolavoro certo non è. Ad ogni modo, tralasciando le mie qualitativamente dubbie conoscenze cinematografiche, Canto di Natale è un capolavoro, ma non è il capolavoro di cui parleremo oggi.

I lettori più attenti della rubrica ricorderanno che non è la prima volta che cito Truman Capote: uno dei primi articoli che ho scritto riguarda Colazione da Tiffany, la sua opera più famosa. È curioso, dunque, il fatto che non sia uno dei miei autori preferiti e che io non abbia nemmeno letto molte delle sue opere. Semplicemente, mi trovo in sintonia con la sua scrittura. Una sintonia autentica che mi permette di leggere le sue pagine senza fare alcuno sforzo, scorrendo con gli occhi le lunghe file di parole senza nemmeno accorgermene. Penso che la sua scrittura mi sia congeniale, tutto qui. E questa è una cosa che raramente capita, anche con gli scrittori che più amiamo.

È con la naturalezza data da questa convinzione che mi sono approcciata a Un ricordo di Natale, racconto molto breve scritto da un Truman Capote che ricorda il periodo natalizio trascorso durante l’infanzia in una piccola cittadina dell’Alabama insieme alla sua famiglia. Inaspettatamente non compaiono nel racconto né il padre né la madre del piccolo Capote, ma tanti zii, parenti non altrimenti specificati e soprattutto una vecchia cugina e un cagnolino.

La forza del racconto non sta in una vera e propria trama, che trova il suo filo conduttore nella semplice ricerca da parte del piccolo protagonista e della sua “vecchia amica” degli ingredienti per cucinare delle focacce (che sono destinate agli amici nel senso più ampio del termine, spesso persone che i due non hanno neanche mai visto ma a cui si sentono legati: il presidente Roosvelt, due missionari nel Borneo, l’arrotino che passa in città due volte l’anno).

Il punto forte della narrazione è senza dubbio l’atmosfera che si viene a creare man mano che si va avanti con la lettura (e se avete letto qualcun altro dei miei articoli vi sarete certamente resi conto che i romanzi “d’atmosfera” sono i miei preferiti). Capote riesce a ricreare il classico clima natalizio visto con gli occhi di chi il Natale lo ama profondamente e candidamente, e che lo vive nel modo più profondo con cui dovrebbe essere vissuto: un bambino. È la stessa aria che, per esempio, respiriamo quando leggiamo le pagine relative al Natale di Piccole donne. Grazie a descrizioni come queste da adulti riusciamo a ricordare quali erano le sensazioni che da bambini provavamo aspettando la notte di Natale. Ci ricordiamo l’attesa, l’emozione e la felicità che oggi non riusciamo più a provare come allora.

Ecco allora che Brunori Sas viene in aiuto alla nostra riflessione su cosa voglia dire il Natale per un bambino e quanto sia diverso dal Natale di un adulto. Lo fa con una canzone estremamente triste e malinconica, che però ci ricorda proprio quanto da adulti siamo incapaci di provare le emozioni che da bambini ci parevano così naturali. La canzone in questione è La vigilia di Natale.

[…]
Perché spesso a Natale mi viene il magone
Con le luci, il presepe e tutte quelle persone
Con i pacchi dei regali, con le facce tutte uguali
Col boccone sempre in bocca come un branco di maiali
E pensare a com’era bella questa notte trent’anni fa
Alla luce di un’altra stella, alla luce di un’altra età
E continuo a sognare quella casa sul mare
Con la spiaggia e una barca per andare a pescare
Qualche pesce tropicale o vecchie storie marinare
[…]
E continuo a sognare quella casa sul mare
Con la spiaggia e una barca per andare a pescare
Qualche pesce tropicale o vecchie storie marinare
[…]
E pensare com’eri bella, quella notte vent’anni fa
Quella notte di luna piena, solo d’ingenuità
Cosa rimane? Mogli, figli, fantasie
Forse è il momento di andare
Corri e scappa via
[…]

Questa riflessione risulta certamente ancora più vera se si pensa alla figura della “vecchia amica”, l’unica adulta che sembra non essere cresciuta mai. Ce lo dice lo stesso protagonista-narratore, che descrive la loro amicizia con queste parole:

Siamo i migliori amici l’uno dell’altra. Lei mi chiama Buddy, in memoria di un ragazzo che è stato un tempo il suo migliore amico. L’altro Buddy è morto nel 1880, quando lei era bambina. Ed è ancora bambina.
Anche i regali che i due si scambiano sono regali da bambini e raccontati con un entusiasmo tipico dei bambini:
Invece le sto preparando un aquilone. A lei piacerebbe regalarmi una bicicletta (l’ha detto milioni di volte: “Se solo potessi Buddy. È già abbastanza brutto nella vita dover fare a meno di qualcosa che vogliamo noi, ma, accidenti, quello che fa più rabbia è non essere in grado di dare a qualcuno qualcosa che vogliamo dargli. Comunque uno di questi giorni ci riuscirò Buddy. Ti troverò una bicicletta. Non chiedermi come. La ruberò magari”). Invece sono quasi sicuro che mi stia preparando un aquilone come quello dell’anno scorso e di due anni fa; l’anno prima ancora ci siamo scambiati due fionde.

Ma poi subentrano gli adulti, quelli veri, che purtroppo precludono ai due amici la possibilità di un altro Natale così, ricordandoci che in quello che dice Brunori Sas, in fondo, anche se non vogliamo ammetterlo, c’è un po’ di verità. Gli adulti non riescono a vedere la bellezza come la vedono i bambini, e le ultime righe del racconto ce lo dicono chiaramente:

È il nostro ultimo Natale insieme. La vita ci separa. Quelli-che-la-sanno-lunga decidono che il mio posto è in una scuola militare. Ha inizio così una scoraggiante serie di prigioni strombettanti, di campi estivi maledetti dal suono della sveglia. Ho una nuova casa anche. Ma quello non conta. La mia cosa è dove c’è la mia amica, e là non vado mai.

Ed è con queste parole e con questa riflessione incoraggiante e per nulla malinconica che auguro un buon Capodanno e un buon anno nuovo a tutti.