A tu per tu con il cantautore emiliano, in uscita con il suo nuovo disco intitolato “Anima“
Tra le opere musicali più interessanti degli ultimi anni, si infila di diritto “Anima“, il nuovo lavoro di Paolo Simoni. Un disco che non conosce ambientazione o collocazione, proprio come il suono immortale di un pianoforte, lo stesso che lo accompagna fedelmente in queste dieci tracce. In occasione di questa uscita, lo abbiamo raggiunto via Skype per approfondire la sua ispirata visione di vita e di musica.
Ciao Paolo, benvenuto. Partiamo da “Anima”, un disco che scava nel profondo e che emoziona. Come è nato e come si è evoluto il processo creativo di questo album?
«E’ un disco che avevo in mente da tempo, ma ho trovato giusto realizzarlo in questo momento storico. Un album totalmente piano e voce, volutamente piano e voce. Una scelta molto ponderata, volevo restituire alle mie canzoni il giusto spazio. Si tratta di un lavoro completamente suonato, non ci sono sovrastrutture, tagli e cuci, le tracce sono state incise più volte, fino a quando non riuscivo ad ottenere l’emozione che volevo portare a casa.
Ho lasciato il computer in un angolo, l’ho utilizzato semplicemente come registratore, tutto quello che sentite è reale. In genere, nel mainstream purtroppo sentiamo sempre i soliti arrangiamenti, fatti benissimo, ma simili tra loro. In tutti questi anni mi sono fatto un sacco di domande, guardandomi dentro e intorno con occhio critico, per questo ho capito che dovevo fare qualcosa per “combattere” questo sistema, cercare di dare un segnale per primo, anche se potrei passare per un pazzo o per una mosca bianca».
Un lavoro che arriva a cinque anni dall’uscita del precedente “Noi siamo la scelta”, quali skills pensi di aver acquisito in questo lasso di tempo rispetto?
«In questi anni ho composto per altri cantanti, poi ho scritto un libro, di cose ne sono accadute. “Noi siamo la scelta” era un concept album con dei contenuti precisi, con una produzione molto elettronica, ma sempre un disco molto suonato. I miei lavori sono sempre stati molto diversi tra loro, il filo conduttore è la mia scrittura, che a tratti è anche cambiata, perchè nel frattempo sono cresciuto.
Considero le canzoni dei distillati di vita, per scrivere bisogna vivere, consumare il più possibile il tempo che abbiamo a disposizione. Il mio obiettivo, oggi, è cercare di fare delle canzoni d’autore, risultando il più credibile possibile, in primis con me stesso, senza cadere in certi cliché prestabiliti da qualcuno. Proprio per questo, considero “Anima” l’album più atipico della mia intera produzione fino ad oggi».
Mi ha molto colpito “L’anima vuole”, brano d’apertura in cui parli della sensazione che a volte ci impedisce di spiccare al volo e ci costringe a restare a terra. Quali domande ti sei posto e quali risposte ti sei dato componendo a questo pezzo?
«E’ nato un po’ come gli altri altri pezzi, sempre in maniera misteriosa. In questo caso scrissi prima il testo, rimasi un po’ folgorato perché mi resi subito conto della sua particolarità. Rimango sempre molto soddisfatto quando riesco a scrivere qualcosa che non parli di me, bensì degli altri. Ne “L’anima vuole” credo di essere riuscito a trasferire su carta e su musica questo sentimento, tirando fuori la mia parte più spirituale, quella che ci fa vivere, ci fa vibrare, ci fa andare avanti e che sopravvive alla carne. La nostra anima chiede di essere ascoltata, chiede un ritmo più lento, chiede di essere omaggiata e, soprattutto, chiede di essere condivisa».
Canzone impreziosita dal duetto con il maestro Roberto Vecchioni, qui nell’inedito ruolo di interprete. Ci racconti qualcosa di questo pregevole incontro?
«Quando scrissi “L’anima vuole” decisi di chiamare Roberto Vecchioni, lo tampinai seguendolo dappertutto. Insomma, una corte spietata. Un giorno mi invitò a Milano nel suo ufficio, parlammo tanto, scambiandoci i nostri pensieri. Mi chiese di partire in tour per aprire i suoi concerti, girando l’Italia in numerosi teatri. Ricordo date stupende, le cene, i viaggi, questi incontri dove ci siamo conosciuti, dove mi ha omaggiato della sua amicizia. Nel camerino, alla fine dell’ultimo concerto, mi disse che avrebbe voluto cantare con me “L’anima vuole”. Non smetterò mai di ringraziarlo, credo che abbia dato un valore aggiunto alla canzone, lui è sempre stato per me un riferimento culturale, ho imparato tanto ascoltando i suoi dischi. Nessun altro poteva cantare con me quei versi».
Per concludere, in un momento storico delicato come questo, cosa ti piacerebbe riuscire a trasmettere a chi ascolterà “Anima”?
«Mi piacerebbe trasmettere questo: possiamo fare musica anche facendo qualche passo indietro e qualcuno anche di lato, andando a cercare un’emozione vera, che non sia quella di avanspettacolo o da circo. Mi piacerebbe che arrivasse il concetto, soprattutto ai giovani, che si può fare musica in maniera diversa da quella che ci propinano quotidianamente. Questo disco è un invito a provare a vivere liberamente, qualcosa di molto difficile, perché la libertà ha un costo sempre molto alto. Per me è fondamentale che l’artista e l’uomo combacino, che viaggino sullo stesso livello. Le cose belle sono eterne, non bisogna avere paura di sorpassare i propri tempi, non dobbiamo farci mescolare da questa nuvola che ci vuole tutti uguali. Ecco, di chi dice “adesso funziona così” me ne frego, perché voglio inseguire qualcosa di più grande».
Nico Donvito
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