lunedì 25 Novembre 2024

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Parole in circolo, gennaio 2022 – “Il Conforto” di Tiziano Ferro e Carmen Consoli

Quel conforto che ha a che fare con te

La parola del mese di Gennaio è conforto. Il termine deriva dal latino tardo, è composta da con e fortis, il cui significato è dunque “rendere più forte”. Nonostante l’etimologia, quando penso al conforto, penso quasi sempre a due persone tristi, una che piange e l’altra che ne condivide il dolore. Non riesco a pensare alla figura proposta dal vocabolario, di un bastone che sorregge una pianta debole e che quindi pone le basi per nuovi frutti.

Questa mia forma mentis deriva un po’ dal fatto che è ormai di uso comune l’anglicismo comfort, che fa pensare alle facilitazioni, alla beatitudine, a un divano, uno di quelli con lo schienale reclinabile e la pedana, un po’ perché avere bisogno di conforto sembra essere diventato totalmente fuori moda. Bombardati tutti i giorni da immagini di estrema perfezione e felicità, che celano in realtà spesso disturbi psichici ed enormi insicurezze, ci convinciamo che la “normalità”, se esiste, sia stare bene, che il dolore sia solo sfortuna che capita e che vada messo da parte e dimenticato.

Il bonus psicologo

Ho deciso di parlare di conforto in relazione alla recente rinuncia al bonus psicologo nell’ultima Legge di bilancio. È assurdo dal mio punto di vista, come nell’era dell’accelerazione e della produttività, prima di qualsiasi altro valore non si punti a tutelare la psiche umana, soprattutto dopo una situazione pandemica che, come evidenziato da diverse ricerche, ha aumentato drasticamente i casi di depressione e ansia.

Una seduta dallo psicologo, ad oggi risulta ancora essere un lusso, nonostante esistano centri di ascolto e aiuto, poter scegliere il professionista più adatto, potersi permettere un incontro è ancora per pochi. Senza considerare la difficoltà che già implica il riconoscere un malessere ancora non del tutto socialmente accettato.

È molto difficile farsi bisognosi, anche se è la base di una qualsiasi relazione umana, è più semplice essere forti, esempi, dare e ascoltare, che non esprimere i propri problemi. Per un meccanismo perverso, poi, questa idea dell’invincibilità è anche quella che ci facciamo degli altri. Ho sempre pensato che mostrarmi incorruttibile fosse necessario per essere accettata, o meglio per ricevere l’approvazione degli altri, questo per anni ha mosso le mie azioni.

Non potete immaginare lo stupore, dopo essermi mostrata fragile, in un periodo di estrema debolezza, di essere stata comunque un esempio, di aver ricevuto una richiesta d’aiuto, da chi in quel crollo aveva letto della credibilità. Vedere chi abbiamo sempre ritenuto forte, anche superficiale, farsi piccolo, chiedere aiuto, raccontare con le lacrime agli occhi di un dolore grande, inimmaginabile proprio per l’idea distorta che ci facciamo degli altri e che il loro desiderio di accettazione ci porta a farci di loro, mi ha aiutata ad essere vera, a cercare soluzioni per due, a continuare a brancolare nel buio, non da sola.

Felicità monetizzata

Vorrei gridarlo al mondo, ai ragazzini che seguo come educatrice in oratorio, e hanno paura, si sentono sbagliati, incompresi, soli, alle mie amiche che non si sentono mai abbastanza, a chi piange prima di un esame e scappa, a chi sta per diventare genitore e non si sente all’altezza, ai genitori che sentono di aver sbagliato tutto, e un po’ anche a me, che è normale anche stare così.

Vorrei convincerli che quella che vedono sui social, in tv, che leggono sui giornali, è una felicità monetizzata, perché le lacrime non fanno troppi likes, perché se piangi sei debole, se ti arrabbi sei irascibile, se hai un espressione corrucciata allora non sorridi mai, non sai stare al gioco. Che è tutto normale, dicevo, ma ha bisogno di una cura, e che se questa cura fosse un diritto, forse nessuno si sentirebbe più sbagliato, forse tutti sapremmo riconoscerci bisognosi, forse una richiesta d’aiuto non mi sarebbe stata bisbigliata all’orecchio, forse non avrei aspettato così tanto a farmi bisognosa, nemmeno io.

Il conforto

La canzone che mi sento di legare a questo tema, nonostante ce ne siano tantissime che mi hanno colpita, a partire da “En e Xanax” di Samuele Bersani, “Tutto per me” di Michele Merlo, “Portami via” di Fabrizio Moro, “La notte” di Arisa, è “Il conforto” di Tiziano Ferro e Carmen Consoli.

Se questa città non dorme
Allora siamo in due
Per non farti scappare
Chiusi la porta e consegnai la chiave a te
Adesso sono certo della differenza tra prossimità e vicinanza
È il modo in cui ti muovi in una tenda in questo mio deserto

Scelgo questa canzone perché a stupirmi, ancora dopo anni, è stata la disponibilità all’aiuto di chi avevo vicino e non mi era solo prossimo, come dice la canzone. L’immagine iniziale è quella della notte, che è sempre uno dei momenti di maggior sconforto; il via vai del giorno, la luce sono segnali di vita, la notte è tutto più complesso, si è un po’ più soli, soprattutto quando dormono tutti e le paure si fanno immense. Ed è proprio della notte che ricordo un messaggio, una prima richiesta d’aiuto a sfuggire da quel buio, e una mia promessa di luce, che non avrei mai saputo dare, se prima qualcuno non avesse illuminato me.

Si leggono poi due diverse modalità di vicinanza, la prima obbligata, per paura che l’altra persona scappi la si rinchiude dei nostri problemi, le si lascia sempre una via d’uscita ma ci si mostra deboli e inermi, così che non abbia mai veramente il coraggio di abbandonarci. L’altra immagine è la tenda nel deserto, quando mi sentivo arida, impossibilitata a dare a fare luce, c’è sempre stato chi la faceva per due, e stava in quella tenda, che io mi immagino verde (come quelle del mio campeggio) e illuminata, pronta a spostarsi terminato il suo compito, ma pronta ad accogliere, ovunque.

Sarà che piove da luglio
Il mondo che esplode in un pianto
Sarà che non esci da mesi
Sei stanco e hai finito i sorrisi soltanto

Questa pioggia infinita, che sembra essere un pianto universale è una perfetta immagine per indicare la depressione e la paura che forse fa il mondo esterno, sembra un turbinio di pericoli, quando non si sta bene e ci si rifugia in spazi sempre più stretti, anche se si ha un tremendo bisogno di ossigeno, ci si dimentica come respirare. La stanchezza poi sembra quasi immotivata, si smette di fare tutto eppure si è doppiamente stanchi in questo stadio di agitazione continua e paura di essere visti per come si è, senza più sorrisi.

Per pesare il cuore con entrambe le mani ci vuole coraggio
E occhi bendati
Su un cielo girato di spalle, la pazienza, casa nostra, il contatto
Il tuo conforto ha che fare con me
È qualcosa che ha che fare con me

Altra immagine molto forte, non posso fare a meno di pensare al mio libro di storia delle elementari, a quella immagine nel capitolo sugli Egizi, della dea Maat, che pesava su una immensa bilancia il cuore degli uomini, alla loro morte, il quale doveva essere leggero come una piuma di struzzo se erano stati giusti. Ricordo me bambina ma estremamente razionale, vederla proprio come una trappola, nessun cuore può infatti pesare così poco, e questa canzone sembra dire lo stesso, per pesare il cuore, ci vuole coraggio, perché si sa in partenza che non si può essere sempre giusti, che ci si mostrerà per come si è.

Negli occhi bendati io rivedo, per quanto questa frase sia ossimorica, tutto quel buio, che pensavo non se ne sarebbe mai andato, l’indifferenza che pensavo avrebbe per sempre caratterizzato gli altri, troppo impegnati ad essere felici, e poi la pazienza di chi mi ha aspettata, di chi ha avuto un occhio di riguardo, nel non farmi mai sentire sbagliata, di accompagnarmi nel buio.

Ricordo casa mia, dapprima un rifugio e poi troppo stretta e chi per me in quel periodo è stato casa, ricordo la fatica nel cercare di compiere le azioni di tutti i giorni, le più banali e la ricerca di contatto tutte le volte che mi scioglievo in un pianto.

Farsi aiutare a trovare la luce

Qui la frase più bella, il tuo conforto ha a che fare con me, la psicoterapia insegna ad aprirsi, lo psicologo è qualcuno con cui poter essere se stessi. Ma non fraintendetemi, non è che dall’oggi al domani si cambia, in uno studio si entra in punta di piedi, tanto quanto si entra in ogni situazione della vita, con la paura di disturbare, di fare troppo rumore, di sfracellarsi al suolo; il corso delle sedute insegna ad essere sempre un po’ più forti, a valorizzare le debolezze, a capire cosa veramente non va, quali meccanismi si sono inceppati, senza giudizi.

Per questo il bonus psicologo sarebbe stato necessario, per questo le sedute dovrebbero essere alla portata di tutti, e dire “vado dallo psicologo”, un argomento di conversazione come altri, perché la terapia salva la vita.

Ancora una volta, però, non si investe sull’essere umano, ancora una volta la terapia è secondaria perché “tanto poi ti passa”. Che poi è vero, nei momenti in cui sembra tutto spento, l’interruttore della luce spesso è più vicino di quanto crediamo, ma vi assicuro che nel buio non si vede e senza il conforto di chi ha gli strumenti per illuminarci, “non passa mai”.