Un Libro, Una Canzone: Insieme
Il mito di Orfeo
E lui consolava il disperato amore sulla cetra,
e te, dolce sposa, te nel suo cuore sulla riva solinga
cantava, te all’apparire del giorno, te al tramonto.
Se oggi chiedessi alle persone per strada di indicarmi il più grande cantore di tutti i tempi, è assai probabile che ognuna di esse, dopo avermi fatto notare quanto il termine “cantore” sia desueto, mi proponga nomi diversi. Se, invece, facessi la stessa domanda agli antichi poeti greci e latini, tutti mi indicherebbero un nome soltanto: Orfeo, il mitico cantore figlio della musa Calliope.
Il mito di Orfeo e della sua amata Euridice, sebbene già noto nell’antica Grecia, al giorno d’oggi è conosciuto soprattutto nelle sue versioni latine tramandate dalle Georgiche di Virgilio e dalle Metamorfosi di Ovidio. Secondo l’opera Virgiliana, in seguito alla morte prematura della sposa, il mitico cantore si reca nell’Ade e, grazie alla propria arte, convince gli dei Plutone e Proserpina a lasciare andare l’amata ninfa e restituirla al regno dei vivi. Prosperina, tuttavia, pone una condizione al ritorno della ninfa nel regno dei vivi: Orfeo non dovrà voltarsi a guardarla finché i due non saranno usciti dalle porte del Tartaro.
Una follia improvvisa
Ma una follia improvvisa colpì l’incauto amante,
perdonabile, se i Mani conoscessero il perdono:
si fermò Orfeo, e ormai quasi alla luce – immemore, ahimé,
e vinto dall’amore – si voltò, guardò Euridice.
Il grande interrogativo che ognuno si pone leggendo il mito di Orfeo è proprio quello relativo alla contravvenzione della regola imposta da Proserpina: perché il cantore si è voltato indietro? Nella versione di Virgilio il protagonista è, dal latino, letteralmente “immemore” e “vinto nell’animo”, mentre in quella di Ovidio il cantore è dipinto come ansioso e preoccupato che l’amata non sia veramente dietro di lui.
Un atto consapevole
Centinaia e centinaia di anni dopo Virgilio, Roberto Vecchioni nella sua canzone Euridice ci offre un’altra versione del mito di Orfeo ed Euridice e una diversa interpretazione del motivo che ha spinto il cantore a voltarsi.
Canterò finché tu scoppierai
e me la ridarai indietro.
Ma non avrò più la forza
di portarla là fuori
perché lei adesso è morta
e là fuori ci sono
la luce e i colori
dopo aver vinto il cielo
e battuto l’inferno
basterà che mi volti
e la lascio alla notte
e la lascio all’inverno.
L’Orfeo di Vecchioni non perde l’amata a causa di un momento di debolezza, ma, seguendo l’esempio dell’Orfeo di Pavese, decide deliberatamente di voltarsi ed abbandonare Euridice al mondo degli Inferi. Il suo gesto è frutto di un ragionamento, di una riflessione amara: la giovane ninfa ora appartiene al mondo dell’Ade, ed Euridice come la conosceva il suo sposo non esiste più.
Mi volterò perché l’ho visto il gelo
che le ha preso la vita
Euridice non è più di questo mondo, è altro rispetto a Orfeo. Quel che è successo, la morte, la discesa agli Inferi, il tempo passato nell’Ade, nulla di tutto ciò può essere cancellato. Orfeo, che nel mito greco e romano mai dimenticherà Euridice e morirà a causa di questo amore, in Vecchioni deve poter continuare la propria vita senza di lei. Questo vuol dire che la ama meno? L’amare sé stessi deve comportare necessariamente un amare meno il prossimo? O forse è proprio in virtù dell’amore che Orfeo prova per Euridice che egli non la obbliga a tornare qualcosa che ormai non è più?
Orfeo rispetta la nuova Euridice, e non si sente in diritto di cambiarla per riavere una versione di lei che ormai è solo un ricordo. Euridice, quindi, è in questo senso un’ultima straziante canzone che il cantore/cantautore dedica alla sua amata. Non è una canzone dedicata a un ricordo, a un amore idealizzato e passato, ma all’Euridice del presente, per dirle addio prima che le loro strade si dividano per sempre.
E mi volterò perché tu sfiorirai
Mi volterò perché tu sparirai
Mi volterò perché già non ci sei
E ti addormenterai per sempre.
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