Come il tema della fotografia è entrato nei testi delle canzoni
Scatto il mondo e lo chiudo in un’immagine da guardare e riguardare, interrogare ed anche ricordare. Lo faccio diventare metafora esistenziale con Francesco Renga, “come una fotografia dai contorni incerti” perché “é questa vita la mia“. Uno scatto è semplicemente un frammento di reale da filtrare, non fosse altro che per vedere l’effetto che fa. O forse no?! Esiste il potere di una fotografia, più amplificato oggi che in passato? Ora che la tradizionale macchina è stata sostituita da fotocamere digitali, incorporate nella più svariata tecnologia quotidiana?
Se in certe occasioni fotografiamo per cogliere il tempo che passa “come in una fotografia Mi vedo vecchio senza nostalgia” per dirla con gli Almamegretta, molte volte attuiamo una manipolazione del soggetto in nome di una rappresentazione ideale. Lo canta anche Loredana Bertè, “fotografando questo mondo Dal fondo (…) questa stanza l‘essenza del reale intorno a me così non è“, in una tensione costante, e probabilmente ormai automatica, di far diventare il passato una visione esteticamente perfetta, patinata al punto da fargli perdere il tratto irregolare, peculiare e, magari “difettato”, che lo rende unico, non per questo meno autentico, visto che quello che ci arriva da una foto supera ogni orpello di forma e va dritto al cuore, regalandoci forti sollecitazioni interiori.
Ugualmente, quando entra in un testo musicale, lo scatto si può fare storia, emozione, può raccontare la dinamica di una relazione o, semplicemente, l’atto in sé, come nel “click” onomatopeico del brano di Entics, quando chiede “Dimmi come mi devo mettere e poi Che posa vuoi?“. Può essere l’amorosa allitterazione di Biagio Antonacci “ti chiamo, non chiamo, vediamo, adesso sei vicino a me, non lo sai, ti bacio, mi baci, ci amiamo Tu sei qui dentro una mia fotografia“, che si fa, diversamente da prima, “nostalgia, malinconia“. Oppure un attimo rubato, come in Nitro, “mi piace osservarti quando non mi Guardi perché come farti uno scatto rubato“, che trova la sintesi perfetta di un atteggiamento sociale attualissimo nel ritornello amaro, ma camuffato dalla leggerezza del tormentone estivo, di Takagi &Ketra, “siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone Ma non abbiamo più contatti, soltanto like a un altro post“.
Intensa Carmen Consoli, mentre “guardo una foto di mia madre” usa la forma descrittiva per farci vedere cosa vede nello scatto, “era felice avrà avuto tre anni stringeva al petto una bambola il regalo più ambito“, facendoci partecipi di uno spinoso nodo affettivo, non ancora sciolto, nel rapporto madre-figlia, “le avrei voluto parlare di me chiederle almeno il perché dei lunghi ed ostili silenzi e momenti di noncuranza“.
Capita di lasciarsi e di non sapersi affrontare di persona, come racconta Cesare Cremonini, “fammi una fotografia E tienila per sempre nel telefono Ti dico una bugia È facile lasciarsi in un telefono“. Quel “per sempre” non ha il sapore della promessa di un tempo e dello scambio di prospettiva, ma apre al ricordo, come a dire che una fotografia, similmente a un tatuaggio sulla pelle, si fa traccia tangibile dei sentimenti provati per la persona amata. Se questi cambiano e finiscono, resta il potere dell’immagine a fermarli, consegnandoli all’eternità. Non sarebbe strano, perciò, fare come Tiziano Ferro, “e nell’ansia che ti perdo ti scatterò una foto“, così che “ricorderò e comunque e so che non vorrai Ti chiamerò perché tanto non risponderai“. Soltanto il tempo diventa cura e possibilità di rileggere da un’altra prospettiva i vissuti, “come fa ridere adesso pensarti come a un gioco E capendo che ti ho perso Ti scatto un’altra foto“.
Futuro ipotetico e presente storico segnano le fasi interiori degli innamorati in pena, che metabolizzano la separazione e la fine con una nuova fotografia attraverso cui guardare ciò che è stato e magari riderci su. Se una fotografia può rimanere per sempre, decidere di non fotografare un attimo, in certi casi, rappresenta l’inizio dell’addio e dell’oblio; ce lo dice Raf , “ti guardo per l’ultima volta mentre vado via Ti ascolto respirare Non scatto la fotografia“, così che “Non porterò nessuna traccia dentro me“.
Quanto può durare un’immagine impressa nella mente? Cosa diventa un ricordo senza l’aiuto di una foto a ridefinire i contorni di ciò che è destinato ad annebbiarsi col tempo? Di nuovo, la simbiosi tempo e scatto, compreso quello che impieghiamo nella selezione della foto migliore da condividere con il resto del mondo, da “postare” sui social.
Come dovrebbe essere una foto ideale di oggi? Se lo chiede anche Ornella Vanoni “e adesso che dovrei posare per l’ennesima fotografia Sai dirmi tu per caso la migliore inquadratura quale sia? Ormai che con un selfie fai vedere tutto a tutti e così sia Ce la incorniciamo? O la butto via?“. Si è fatta larghissima, la consuetudine di usare i filtri per esaltare la realtà, fino all’esagerazione e, verrebbe da dire, all’esasperazione; una fortuna per “noi che veniamo male su tutte le Polaroid“, scrive Carl Brave x Franco 126 in una canzone a rime baciate, che racconta di come “in foto abbiamo gli occhi rossi e siamo tutti mossi“.
Riki ci fa riflettere, invece, sull’azione, ormai automatica, che compiamo tantissime volte, “scatti che scorri e che poi non cancelli Che scatti veloce e che poi non ci pensi“; fotografiamo praticamente ogni dettaglio che ci capita sotto gli occhi e finiamo per non pensarlo più, dimenticandolo nella memoria del cellulare. Qual è il senso di fotografare tutto e sempre? Perché lo facciamo? Se dovessimo considerarlo un automatismo incontrollato, potrebbe aiutarci “rendi l’istante da impresso a reale e non più digitale“; un passaggio che ci sembra anche un invito e un modo per rimanere in contatto fisico con le persone, mettendo una “mano al volante con l’altra ti tengo“.
Archiviare nello spazio digitale, sbadatamente e senza nemmeno l’intenzione, è azione opposta a quella di quando le fotografie si chiudevano fisicamente in un cassetto, come faceva Luciano Ligabue “ho messo via un bel pò di foto Che prenderanno polvere“. E forse ha ragione Gianna Nannini a dirci che “corre lungo il fiume Una fotografia“, dove quel corso d’acqua è il divenire della vita, trascina ogni suo frammento “e chi la prende la corrente se lo porta via“, in un ciclo perenne verso un mare sconfinato e quell’infinito che “è tutto ciò che resta”, dopo i flash che costelleranno la vita di ognuno di noi.
Francesco Penta
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