venerdì 22 Novembre 2024

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Biagio Antonacci: “La musica ha molta più fantasia di chi la compone” – INTERVISTA

A tu per tu con il popolare cantautore milanese, al suo ritorno discografico con il singolo intitolato “Seria

La ricerca, l’intensità e l’ispirazione di Biagio Antonacci rivivono ancora una volta in musica. Il cantautore milanese torna a regalarci nuove pagine del suo pop d’autore con Seria, singolo che segna il suo ritorno discografico a due anni e mezzo di distanza dall’uscita del suo precedente lavoro Chiaramente visibili dallo spazio. Questo nuovo inedito, disponibile in radio e in digitale dal 27 maggio, anticipa l’uscita del suo prossimo album atteso entro la fine dell’anno.

Ciao Biagio, benvenuto. Partiamo da “Seria”, questo tuo nuovo episodio musicale, come sempre ispirato, con alcuni elementi di novità che non stonano con la tua storia e con il tuo repertorio. Com’è nato questo pezzo e come si incastra in questo tuo viaggio di ricerca all’interno di quel pop d’autore che, come pochi, sai ben rappresentare?

«Ti ringrazio, pop d’autore è una bella definizione, mi piace. Tanto per cominciare, “Seria” è una parola che non ha significato, l’idea del titolo nasce dal suono, da come viene pronunciata e la canzone poi ci gira intorno. Ho riflettuto molto su questo termine, su come poter descrivere realmente un’essenza che possiamo definire tale, uomo o donna che sia. Seria o serio, per me è chi si assume la responsabilità dei sentimenti, esercitando la propria autonomia. Insomma, quando apprezzi la dignità senza alcun tipo di dominio e ti allontani dal concetto di possesso. E’ una canzone di cura e di eguaglianza, io almeno la concepisco così».

In questi anni di carriera, hai raccontato e declinato l’amore nelle sue più molteplici sfumature, senza mai ripeterti. Qual è l’elisir della tua creatività? Cosa ti spinge ogni volta ad indagare a fondo nelle relazioni e nelle dinamiche emotive dell’essere umano?

«Intanto sono un uomo che non legge libri, essendo un po’ dislessico tendo a perdere la concentrazione, quindi ho bisogno di relazionarmi con la gente per capire quel che si dice in giro. Ho sviluppato l’udito e i sensi, corteggiando ogni tipo di dialogo che sentivo per strada. Da sempre mi sono soffermato a capire il dolore, la tristezza, la gioia e la felicità tipiche dei rapporti. Questo ha fatto sì che non ci fossero limiti nel raccontare le cose perché, sai, l’ostacolo più grosso è quando pensi di aver raggiunto un obiettivo e ti ostini a proseguire in quella direzione dettata dal successo. Questo è il grande limite. Se le mie canzoni continuano ancora a girare, probabilmente, è merito della curiosità che mi spinge a cercare ogni volta elementi di originalità».

Appartieni a quella generazione di artisti che hanno sempre generato a loro volta curiosità quando tornavano sulla scena dopo un periodo di silenzio. Certo è che viviamo in un’epoca in cui attraverso i social la presenza di un cantante è diventata in media più costante, di conseguenza l’attesa si è un po’ persa. Tu come la vivi l’esperienza del ritorno? 

«Prima di tutto c’è da dire che i social hanno fatto cadere il concetto di “mito”, la verità è questa. Oggi i miti non ci sono più ed è un peccato perché da ragazzino vivevo nella leggenda di cantautori del calibro di Lucio Dalla, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Alberto Fortis, Fabio Concato e quando mi capitava di incontrarli mi tremavano le gambe, perché non li avevo mai visti ed era un miracolo trovare un loro passaggio in televisione. I social network oggi ti portano nelle case di tutti quei miti, di conseguenza viene a mancare tutto questo e probabilmente non interessa nemmeno più, anzi, possiamo considerarlo un aspetto superato. Questo è un vero peccato, perché toglie respiro e bellezza alla curiosità. Me ne accorgo io stesso che mi ritengo uno abbastanza moderato nell’utilizzo dei nuovi mezzi tecnologici, però casco spesso nel voler caricare un qualcosa per vedere quanti like arrivano.

Quando ci rifletto mi rendo conto che si tratta di un riflesso quasi incondizionato, se vogliamo anche un po’ triste, perché alla fine quel contenuto effimero non appartiene quasi mai alla sfera musicale. Per quanto riguarda il discorso del ritorno, ogni volta è un’esperienza diversa. Sono stato fermo due anni e mezzo, c’è stato il lockdown ed ora pure la guerra. In un momento come quello attuale capiamo quanto l’essere umano sia stupido. Mi capita di vivere spesso a contatto con la natura e mi rendo conto di quanto gli animali e le piante siano superiori, perché hanno un potenziale enorme di sofferenza, una capacità di autogestione incredibile e siamo noi a dipendere da loro. In più veniamo da un periodo assurdo, usciamo da una pandemia che ci ha segnati anche psicologicamente, chi più e chi meno. Ringrazio il cielo per essere qui oggi a parlare con te, vuol dire che sto bene e che, io come tanti, siamo sopravvissuti a questo inferno».

Biagio Antonacci Seria

Sei uno che presta molta attenzione alle parole, per questo sono curioso di chiederti un pensiero a proposito del termine “artista”, una parola che spesso viene abusata e che sembra essere diventata quasi un sinonimo di cantante. Tu che significato attribuisci oggi a questa parola?

«Sai, forse non abbiamo mai capito realmente quale possa essere la definizione precisa dell’arte. Secondo me non è altro che la manifestazione dell’uomo quando è illuminato e quando riesce a fare delle cose eccezionali, che siano dei gesti fisici oppure intellettuali. Aprire una porta verso una condizione che non conosciamo: questa è l’arte. Poi, col tempo, si è declinata in altro ed anche fare delle fotocopie, attaccarle al muro e verniciarle male di giallo viene considerato un gesto artistico, anche se al massimo potremmo definirlo uno scarabocchio artistico, perché l’arte in genere ha sempre a che fare con la creatività e con l’ispirazione. Un fatto artistico non si può progettare, altrimenti resti uno che sta provando a fare delle cose con l’obiettivo di stupire gli altri. Artista è un grande cantautore ispirato, così come un interprete dotato di una voce stellare. Noi, soprattutto le generazioni più giovani, ci stiamo sempre più distaccando sia dal concetto di “mito” che da quello di “arte”».

Nel 2023 saranno trent’anni dalla tua seconda e ultima partecipazione a Sanremo. Considerando il successo delle ultime edizioni targate Amadeus e l’evoluzione che ha avuto il Festival in questi anni, ti piacerebbe tornare a calcare in gara il palco dell’Ariston?

«Riportando i giovani al Festival, Amadeus è stato autore di un gesto artistico, cosa che era improbabile ed impensabile, soprattutto in questa epoca in mano ai social. Un vero miracolo che solamente un artista poteva realizzare, altrimenti non si spiega e non è un caso perché poteva andargli bene il primo anno, ma non il secondo ed anche il terzo. Detto questo, sono stato lontano dalla gara di Sanremo per trent’anni ed è andata sempre molto bene, nel senso che ho avuto una carriera bellissima. Però, oggi, non potrei mai dire “non ci vado perché…”. Se avessi il coraggio di portare una canzone vera e ispirata nelle case di milioni di spettatori in un colpo solo, perché no? Certo non ci andrei con un pezzo che non mi convince al 100%. Se ci fosse un bel mix di cose e di situazioni, non disdegnerei certo la mia presenza in gara al Festival».

Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?

«Anni fa scrissi una frase: “A volte il destino ha molta più fantasia di noi”, contenuta nelle strofe di “Le cose che hai amato di più”. Ecco, io credo che la musica abbia la stessa capacità e che le canzoni abbiano molta più fantasia di chi le scrive. Tutto questo mi affascina, mi ha sempre stupito e continua a farlo».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.