Carmen Consoli: “Senza radici non si cresce” – INTERVISTA

A tu per tu con Carmen Consoli che si racconta in occasione dell’uscita del nuovo disco “Amuri luci”. La nostra intervista alla popolare cantantessa
Carmen Consoli torna a parlare in musica risalendo alle radici più profonde della propria identità artistica e culturale. “Amuri luci”, pubblicato lo scorso 3 ottobre, è il primo capitolo di una trilogia ambiziosa e visionaria, che ripercorre i secoli di storia della Sicilia intrecciando lingue, suoni, storie e poesia.
Greco antico, latino, siciliano: l’artista catanese costruisce un ponte ideale tra passato e presente, facendo convivere Teocrito e Ibn Hamdis, Ignazio Buttitta e Jovanotti, Mahmood e Leonardo Sgroi. Un’opera corale che diventa manifesto, dichiarazione d’intenti, esercizio di memoria e atto d’amore per una terra ricca di contraddizioni e bellezza.
In questa intervista, Carmen Consoli ci accompagna alla scoperta delle ispirazioni che hanno guidato la nascita di “Amuri luci”, del suo rapporto con la lingua e la storia, della passione per la ricerca musicale e linguistica. E non mancano riflessioni sul Festival di Sanremo, da sempre croce e delizia per l’artista, e su un presente che continua a ripetere gli stessi errori del passato.
Carmen Consoli presenta il disco “Amuri luci”, l’intervista
“Amuri luci” è il titolo del tuo nuovo album, primo capitolo di una trilogia che mette in luce tre delle tue anime. A livello narrativo, cosa ti ha portato a partire proprio dalle tue radici mediterranee e linguistiche?
«“Amuri luci” nasce dall’esigenza di recuperare le origini linguistiche che hanno condotto all’italiano che parliamo oggi. Sono partita dal greco antico di Teocrito, passando per il latino… come quello di Ovidio, che pur non essendo siciliano, ha ripreso il mito del Ciclope ribaltando quello di Teocrito. Da lì sono arrivata al siciliano, passando per il dolce stil novo federiciano, che è poi il seme dell’italiano. Ho voluto farlo con l’aiuto di grandi poeti come Ignazio Buttitta, Graziosa Casella, e recuperando scritti del periodo siculo-arabo, come quelli di Ibn Hamdis. Per quest’ultimo brano ho chiamato Mahmood, perché nel suo modo di cantare ci sono inflessioni arabe, come l’uso dei quarti di tono, ed è stato perfetto per denunciare, insieme, il potere del “Dio Denaro”, che oggi motiva tutto ciò che accade, proprio come accadde a Ibn Hamdis, cacciato dalla Sicilia con l’arrivo dei Normanni».
Dal punto di vista lirico, il siciliano tira fuori la tua vena più diretta, che tu stessa hai definito polemica. C’è forse meno introspezione rispetto ai tuoi testi in italiano, ti sei data una spiegazione?
«Sì, l’ho notato anch’io. Il siciliano tira fuori da me un impegno sociale più marcato rispetto all’introspezione. Quando scrivo in italiano, parlo di me stessa, Carmen. Con il siciliano invece filtro ciò che succede attorno a me, lo osservo e lo restituisco in forma musicale. È una lingua che ho conquistato con fatica, grazie a Rosa Balistreri, a 15 anni ho iniziato a studiarla proprio ascoltando lei. Ho scoperto che certe cose in siciliano si dicono con un’efficacia che in italiano richiederebbe giri di parole lunghissimi. È anche una lingua che canto con più forza: il siciliano mi obbliga a usare più voce, forse perché nasce da una tradizione orale forte, dove i cantastorie dovevano farsi sentire senza microfono. L’italiano invece lo sussurro, è più intimo».
Ti sei anche definita una “necrofila della lingua”, ironizzando sull’ipotesi che durante i live il pubblico possa cantare con te in latino o in greco antico. Come nasce la tua passione per la ricerca linguistica?
«È una perversione, mi dovrebbero mandare da uno psicologo (ride, ndr). È come chiedere a un necrofilo perché ama i morti. A me piace rimettere insieme pezzi di lingue antiche per dare vita a un Frankenstein musicale. Ho scritto un pezzo con Teocrito! Capisci? Testo di Teocrito, musica di Carmen Consoli. È una cosa folle. Eppure funziona: quelle parole avevano già una musicalità insita, probabilmente venivano cantate».
Nel disco troviamo ospiti come Mahmood, Jovanotti e il tenore Leonardo Sgroi. Oltre ai testi di Buttitta e Teocrito, “Amuri luci” è forse un album meno personale e più corale?
«Sì, assolutamente. Ho voluto che le voci degli altri amplificassero il messaggio. Mahmood, come dicevo, è stato perfetto per il brano siculo-arabo. Jovanotti ha una solarità e un’energia che servivano in “Parru cu tia”, e Leonardo Sgroi rappresenta il ponte con l’opera, con la grande vocalità italiana. È un disco che vuole raccontare un’identità collettiva, che è anche la mia».
A proposito di storie con una lunga tradizione, non posso non citare il Festival di Sanremo. Nel novembre 1995 partecipavi a Sanremo Giovani, poi sono arrivate tre partecipazioni ufficiali con “Amore di plastica”, “Confusa e felice” e “In bianco e nero”. Ma non ci sei più tornata. È stato solo un caso? O c’è qualcosa di più profondo nel tuo rapporto con la gara?
«Non amo l’idea della gara. Dopo “In bianco e nero” mi sono venuti tutti i capelli bianchi, e ho capito che quella cosa non la reggo. La classifica, il giudizio… mi disturbano. Mi piace partecipare a Sanremo, ma fuori dalla competizione. Anche quando mi hanno chiamata come super ospite mi sono sentita a disagio: sembrava che fossi “sopra” gli altri, e invece io credo che l’arte debba restare orizzontale, mai verticale. Da spettatrice, invece, lo adoro. A casa mia faccio la pizza, vengono gli amici e lo guardiamo tutti insieme seduti sul tappeto. È un rituale».
Chiudiamo con una riflessione più ampia, che riflette sia sui temi del disco che sull’attualità. La storia è ciclica e si ripete… perché, secondo te, l’essere umano non riesce a imparare dai propri errori? Perché il passato non ci illumina come dovrebbe?
«Stesso motivo per cui Hitler fece lo stesso errore di Napoleone in Russia. La storia ci aiuta, ma non basta. Però non è solo un monito a non ripetere gli errori: ci serve anche per costruire un’identità. Le radici servono a fare frutti. Senza storia non possiamo sapere chi siamo oggi, né chi vogliamo essere domani. E senza radici, anche una nazione non può crescere».