A tu per tu con il trio fiorentino, al loro debutto discografico con l’album intitolato “Campo di Marte“
Dopo averli conosciuti dal vivo durante un loro concerto di presentazione lo scorso ottobre, ritroviamo Matteo Ravazzi (voce), Francesco Ravazzi (chitarra) e Giovanni Sarti (batteria), al secolo i Cassandra, per parlare di “Campo di Marte”, progetto che segna il loro debutto discografico, disponibile per Mescal Music a partire dallo scorso 25 marzo.
Ciao ragazzi, benvenuti. Partirei da “Campo di Marte”, la vostra stazione di partenza. A cosa si deve la scelta del titolo?
«La scelta del titolo è avvenuta in maniera naturale, ci siamo arrivati alla fine. Ascoltando i temi dei pezzi ci è venuto naturale chiamarlo come la zona di Firenze in cui è stato scritto il disco. Tutti i brani in scaletta raccontano in maniera inequivocabile quello che ci succede nella nostra realtà e di tutto ciò che avevamo intorno, quindi non poteva che intitolarsi così».
Ascoltando il disco, ciò che viene fuori è che avete le idee molto chiare, sia a livello di linguaggio che di suono. Quanto c’è della vostra precedente esperienza dei Kalevra e come siete arrivati a costruire l’identità dei Cassandra?
«In realtà, abbiamo iniziato questo progetto proprio perchè non avevamo le idee chiare, la spinta è stata questa. Abbiamo resecato tutto e ci siamo ritrovati davanti ad un foglio bianco, su cui abbiamo riscritto la nostra storia. Questo ha fatto sì che si iniziasse un nuovo percorso, ci è servito un bel po’ di tempo per chiarirci le idee. In questo ci hanno dato una grossa mano il nostro produttore Marco Carnesecchi e la Mescal, così siamo riusciti a definire ancora di più il progetto. Questo disco è un po’ una vetrina, il risultato di un percorso, ma il nostro viaggio parte da una serie di idee poco chiare».
“Polaroid e paranoie” è il titolo del vostro nuovo singolo, un brano che mi ha molto colpito, perchè nella vita è capitato a chiunque di stare male dopo la fine di una storia, e poi arrivare alla conclusione che, sotto sotto, forse meritavamo qualcosa di meglio. Come si arriva a questa consapevolezza, cosa scatta esattamente?
«E’ una freccia discendente, perché arriva un punto in cui più in basso non si può andare. Quindi scatta un moto di orgoglio, un meccanismo naturale di sopravvivenza. L’abbiamo vissuta tutti questa spirale che ci porta in fondo, fino a toccare il suolo e la spinta per risalire».
In conclusione ragazzi, quali elementi e quali caratteristiche vi rendono orgogliosi di “Campo di Marte”, di questo vostro progetto discografico d’esordio?
«Quello che ci piace di questo disco è che, nel bene e nel male, è un album di pancia, viscerale. Poi può piacere o non piacere, però è genuino. C’è una grande cura al dettaglio, anche nelle imperfezioni. Dietro ad ogni piccolo e singolo errore c’è un perché».
Nico Donvito
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