“Dalla A alla Z”: E come Elisa

Dal debutto ai grandi successi: la vita e la musica dei protagonisti della scena, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla E come Elisa. A cura di Francesco Costa
La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo dalla lettera E, E come Elisa.
Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.
“Dalla A alla Z”: E come Elisa
La prima volta che l’ho sentita cantare avevo quattro anni, era il 2006. Ricordo una sua raccolta di successi tra le mani e nelle orecchie la voce che usciva dallo stereo della macchina. Mi ha lasciato senza parole, come una primavera. La sua è un’anima pura, talmente leggera che vola. Timidamente esuberante, potentemente fragile. Da quasi trent’anni occupa una posizione di rilievo nella classifica degli artisti che ti potrebbero intonare pure la lista della spesa, ma ti lascerebbero comunque sbalordito.
A luglio farà il suo primo concerto a San Siro. Di acqua sotto i ponti da quando faceva i piano bar per pagarsi le lezioni di musica ne è passata moltissima, eppure lei non si è mai fatta trovare impreparata. Si è lasciata travolgere dalla corrente senza mai annegare, nuotando tra tutti gli ostacoli del cuore. In costante mutamento come le sue canzoni, l’artista di oggi inizia con la lettera E. E come Elisa.
Gli strumenti sono accordati, l’orchestra ha provato, lo show sta per iniziare. Sono quasi le nove di sera di mercoledì 2 febbraio 2022 e il pubblico attende soltanto il suo arrivo. Tornare al Festival di Sanremo ventuno anni dopo averlo vinto, una pazzia. Ma chi glielo ha fatto fare? Probabilmente se lo sta chiedendo anche lei, ma non c’è più tempo. Sale sul palco di bianco vestita, come quella prima volta, e il resto è magia. Applausi a scena aperta e una certezza, “O forse sei tu” è destinata a diventare un classico del suo repertorio.
Quello di Elisa è un ritorno al futuro, come il titolo dell’album in uscita a quattro anni di distanza dall’ultimo. Quattro anni intensi appesantiti da una pandemia che ci ha costretti a isolarci, ma anche tra le mura di casa, un vero artista trova ispirazione. E a volte decide di tornare in grande stile, spiazzando tutti, magari partecipando alla gara musicale più importante del Paese. “Pensavo valesse la pena ritornare per parlare a tutti” e tutti l’hanno ascoltata. Amadeus sta per annunciare chi ha vinto tra lei e la coppia dell’anno, Mahmood e Blanco, ma a lei dei numeri non è mai importato più di tanto. Così si lascia trasportare dai ricordi e la mente ritorna per un attimo al passato, a quella sera del 2001 in cui tutto è cambiato. Per la prima volta canta in italiano, lo fa con un brano che è il suo manifesto.
Parlami, come il vento fra gli alberi”, con queste parole suggeritele dalla madre, comincia “Luce (tramonti a nord est)”. Un brano pop rock delicato e potente al tempo stesso che sa di erba bagnata, di boschi e di vento che passa tra gli alberi del Friuli dove Elisa è cresciuta. Racconta la maturazione, il diventare donna accettando che anche gli amori più belli finiscono. Ha poco più di vent’anni, ma nel suo bagaglio ci sono già tante esperienze. C’è la bellezza della fragilità che viene celebrata da quella vittoria al Festival. In quella che è la canzone della sua maturità, c’è tutto ciò che ha vissuto.
“La mia era una famiglia matriarcale dove si è sempre puntato sull’empowerment femminile e sul concetto di inclusività. A tre anni e mezzo mi facevano salire sul palco con un amico drag queen. In paese venivano visti come dei marziani e loro se ne fregavano. Mi hanno insegnato a fare lo stesso”. Diventa grande tra le donne e realizza fin subito, nei pregiudizi vissuti da sua mamma soltanto perché non si era sposata, che non si deve lasciare condizionare dalle opinioni della gente.
Finite le medie, abbandona la scuola e mentre lavora come parrucchiera inizia a fare la corista in studio. Impara a suonare la chitarra e il pianoforte. E in breve tempo si esibisce con gruppi di tutti i generi, dal brit pop dei Blur al rock blues di Dylan. Non disdegna nulla cercando la sua identità in ogni. Si avvicina alla scrittura e alla musica in modo naturale e questo si riflette nelle sue canzoni. Se si fosse fermata a quello che dicevano gli altri, la mentalità ristretta della provincia l’avrebbe avvelenata e non avrebbe mai mandato quella demo a Caterina Caselli a 16 anni affascinandola a tal punto da ottenere un contratto discografico.
Probabilmente non se ne sarebbe mai nemmeno andata come invece fa durante la fase di lavorazione del suo primo album “Pipes & Flowers”, uscito nel 1997, che crea vivendo tre mesi a Berkeley, in California. Quel disco, prodotto da Corrado Rustici, è un successo che consacra subito Elisa. Era come se ci fosse un posto vuoto nella scena musicale italiana, un posto che la stava aspettando e che lei occupa con il suo talento e con la scelta particolare di cantare solo in inglese.
“Ho sempre cantato in inglese per una sorta di insicurezza sociale. Ho studiato poco e male e sentivo questo peso al punto di vergognarmi di scrivere in italiano”. A frenarla era anche la paura di mettersi a nudo senza nascondersi dietro una lingua diversa dalla sua. È per questo che quando scrive e compone “Qualcosa che non c’è” dopo aver visto un concerto di Vasco, non vuole farla sentire a nessuno. Ma un bel giorno si sblocca e, tra le mille insicurezze che arricchiscono la sua sfaccettata personalità, affronta il repertorio in lingua madre. Da quel momento in poi dedica sempre più spazio all’italiano, ma con cautela, senza mai accantonare l’inglese dei grandi successi come “Labyrinth” e “Broken”.
Gli unici album interamente in italiano sono “L’anima vola” del 2013 e “Diari aperti” del 2018. Due dischi profondamente diversi rispetto ai suoi esordi. Del resto, questa è la particolarità di Elisa. “A volte mi stupisco che il pubblico riesca a starmi dietro in tutti questi cambiamenti”. Cambiamenti che la fanno oscillare dai ritmi scatenati di “No Hero” e “Seta” alle dolce e melodiosa malinconia di “Eppure sentire (un senso di te)” fino all’indie calcuttiano di “Se piovesse il tuo nome”. Tutto condensato in un’artista unica e multiforme. Come i suoi tre eventi indimenticabili all’Arena di Verona per festeggiare il vent’anni di carriera nel 2017.
Lei non capisce come le persone riescano a seguirla, ma forse è proprio per questo che la seguono. Perché è istintiva ed è per il suo lato selvaggio, che tenta inutilmente di nascondere, che Maria De Filippi la chiama come coach ad “Amici”. Negli anni forma talenti di successo come i The Kolors e si fa apprezzare dal pubblico televisivo che ride per la sua innocente goffaggine e gioisce nella consapevolezza che una delle voci più belle della musica non è affatto snob, è una matta impossibile da non amare. E infatti tutti vogliono collaborare con lei da Emma a Giorgia, che batte nel 2001 a Sanremo per poi tornarci a duettare sempre su quel palco nel 2023, passando per Tommaso Paradiso e Cesare Cremonini fino ad arrivare a Giuliano Sangiorgi e Luciano Ligabue.
Quello con Ligabue, in particolare, è un rapporto strettissimo. La conosce così bene che nel 2014 le cuce addosso una canzone che non riesce a cantare senza commuoversi, la toccante dedica alla figlia “A modo tuo”. Il marito, i figli, i cani e i gatti. La casa di campagna, il Friuli da cui non si mai realmente disunita. Questo è il luogo in cui, dopo tutti gli impegni, fa ritorno e trova conforto nella natura. Circondata dai campi, coltiva il suo orto e ricarica le batterie. Per poi tornare alla frenesia della vita da star della musica che non disdegna mai. Elisa è tutte queste cose insieme.
È campagna e città, esuberanza e timidezza. La puoi trovare in tv a scherzare, ma quando c’è poco da ridere la vedrai sempre in prima linea. A esprimere la sua vicinanza alle donne vittime di violenza, ai terremotati senza un tetto sotto cui dormire e all’ambiente sempre più minacciato dalla scelleratezza umana. È ritmo martellante e melodia sognante. Apparentemente ti potrebbe confondere, ma se fai attenzioni lo scorgi. Quell’elastico teso, anzi tesissimo, che non ha mai perso e che la tiene unita, come direbbe Gaber. E connette la bambina in frac che imita Liza Minelli davanti allo specchio alla ragazzina imbarazzata che si butta e sale sul palco del “Karaoke” di Fiorello. Quella bambina discalculica che odiava la matematica, ma scriveva temi che facevano il giro della scuola alla donna incoscientemente matura che tiene in piedi lo show di Natale di Canale 5.
Quel filo rosso che lega l’artista che canta “Una poesia anche per te” prosciugandoti i condotti lacrimali a quella che ti fa scatenare con i tormentoni alla “Da sola (in the night)“. Dal ristorante in cui faceva piano bar a San Siro. Che viaggio. Ma è lo stesso viaggio che viviamo noi ascoltandola e che ho vissuto io scrivendo di lei. Un viaggio che mi ha riportato a quando ero bambino e mi divertivo ogni volta che partiva “Stay” cantandola con il classico “na na na” di chi non sa l’inglese. In fin dei conti, non è cambiato molto da allora. Sono cresciuto, adesso se parte quella canzone so anche le parole. Ma il mio spirito è rimasto lo stesso. Così come quello di Elisa che non ha mai perso la sana follia che la accompagna da sempre. Quel coraggio di farci cambiare idea sui sogni, lei che di sogni troppo grandi ne ha una marea.