“Dalla A alla Z”: J come Enzo Jannacci

Dal debutto ai grandi successi: la vita e la musica dei protagonisti della scena, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla J di Enzo Jannacci. A cura di Francesco Costa
La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo dalla lettera J, J come Enzo Jannacci.
Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.
“Dalla A alla Z”: J come Enzo Jannacci
Nati in un paese dove i fiori hanno paura e il sole è avvelenato, umiliati e offesi da una vita agra. Sono gli sfigati. C’è chi detesta le loro storie di povertà e non fa niente per nasconderlo, chi semplicemente li evita. Ci sono i benefattori che li aiutano sul campo e poi c’è chi li osserva, consapevole di essere stato più fortunato, e decide di dare una voce a chi non l’ha mai avuta con la più inarrivabile delle empatie. Il protagonista della puntata di oggi lo ha fatto per più di cinquant’anni.
Medico chirurgo di giorno, cantautore stralunato di notte. Jazzista e rocker, autore e attore, polistrumentista sopraffino. E poi cabarettista, comico sublime e demenziale al tempo stesso. Che cosa non è stato? Di certo non uno di quelli che a teatro va nelle ultime file per non disturbare. Gli artisti come lui turbano, non ti lasciano indifferente. Non entrano allo zoo, ma sanno che ci vuole orecchio e ce l’hanno, spiccatamente sviluppato come tutti gli altri sensi. Il suo nome inizia con la J, J come Jannacci.
Chissà se c’è campo nell’aldilà. Qualora ci fosse ed Enzo avesse sciaguratamente acceso la televisione qualche volta negli ultimi anni, gli sarà sicuramente capitato di vedere quella pubblicità della Md in cui Antonella Clerici intona la hit più famosa del “Dottore“, storpiandola con il nome della catena di supermercati. Un brano uscito gli ultimi giorni del 1967 ripreso in uno spot pubblicitario del 2022, questo significa rimanere nel tempo.
E indubbiamente, non ci scorderemo mai di “Vengo anch’io, no tu no”. Non una canzone, ma il suo manifesto. Un inno fantozziano dedicato agli esclusi, a quelli che la società emargina perché indegni persino di sperare in un mondo migliore. Su piacevolissime note di ispirazione jazzistica, Jannacci tematizza la divisione di classe e la disparità di genere. Incompresi da tutto e da tutti, i suoi personaggi non vengono invitati nemmeno al loro funerale. Soli e ostracizzati, una disgrazia. Condizioni che vivono in molti, e che in molti tendono vergognosamente a reprimere, trovano con lui un insperato protagonismo perché prima di tutti sa cosa significa essere un diverso. Figlio di un aviatore che ha fatto la Resistenza, immigrato dalla Puglia al Nord, gli sembra sempre che la gente lo guardi dall’alto al basso e non lo consideri pienamente milanese. E ora con la sua arte, mette al centro i diversi come lui.
Forte di questo successo, il cantastorie fantasista per eccellenza, si presenta sul palco di Canzonissima del ’68 e arriva in finale. A questo punto vorrebbe sfidare l’incontrastato Gianni Morandi con “Ho visto un re”. Ma quel brano, che diventerà il simbolo dei sessantottini («Sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale»), è forse troppo potente e la casa discografica lo fa esibire con un pezzo più lento. Escluso dalla gara, così come i suoi personaggi dalla vita sociale, manda tutti a quel paese e scappa in America per specializzarsi in chirurgia dopo la laurea in medicina. Medicina che, del resto, è sempre stata una presenza fissa per lui, un posto in cui rintanarsi quando non si sente a suo agio nei panni di istrione. Anche se quelle vesti, gli calzano da sempre perfettamente a pennello.
Fin da quando mamma Maria, una casalinga originaria di Como, gli regala una fisarmonica da bambino e da lì non si ferma più. Per otto anni studia pianoforte al Conservatorio e si diploma anche in armonia, composizione e direzione d’orchestra. La passione per la musica e per lo spettacolo, già alle superiori organizzava piccoli show con il compagno di scuola Giorgio Gaber, vanno incredibilmente di pari passo con le sue abilità nello studio. Uno dei rari casi in cui il ragazzo è bravo e si applica pure. Mentre noi ci arrabattiamo per portare a termine tutti i nostri impegni, lui studia medicina e contemporaneamente va in scena. Dalle corsie di un ospedale al palco di un locale, da Clar Kent a Superman. «Con questa testa un po’ matta ho bisogno di usare le mani e mi piace aiutare la gente però facevo il rianimatore, l’intensivista oppure stavo in chirurgia d’urgenza. Avevano capito che io non potevo affezionarmi ai malati, che sono troppo sensibile. Io sono uno scienziato, un matematico, non sopporto di veder soffrire la gente».
Impegnato a “usare le mani”, non si fa vedere su di un palco per buona parte degli anni settanta, pur continuando a incidere canzoni famose come “Messico e nuvole” del 1970. Tra le più note c’è anche “Ragazzo padre”, un brano struggente del 1972 in cui si immedesima in un giovane alle prese con l’inaspettata paternità che non trova il supporto nella società per permettere al suo bimbo di crescere sano. Lo stesso anno, Enzo e la moglie Giuliana Orefice diventano genitori di Paolo. Un momento di gioia per la coppia, probabilmente è tutta questa felicità a fungere da monito per Jannacci: non dobbiamo mai dimenticarci di chi sta peggio di noi. Sia chiaro, le sue canzoni ti fanno anche cantare e ballare, ma non c’è mai una volta in cui non ti facciano ragionare. Crea un tipo di canzone intelligente, come l’iconico pezzo che scrive con Cochi e Renato un anno dopo. Una sigla destinata a segnare la storia come le altre che compone per il duo, “La gallina” ed “E la vita la vita”. Ne sa qualcosa Gigi che assomiglia ad Albert Einstein, ma è soltanto Gigi, un pensionato che cerca di risparmiare soldi tra all’Eurospin. Avete capito bene, anche questa sua canzone viene sfruttata per una pubblicità. Evidentemente in un’altra vita, Jannacci non lavorava tra le corsie di un ospedale, ma tra quelle di un supermercato.
Tra un intervento chirurgico e l’altro, pubblica l’album “Fotoricordo” in cui alterna i suoi pezzi a quelli di un altro mito, Paolo Conte. È proprio grazie alla partecipazione come ospite a un suo concerto che Jannacci decide di tornare in scena con un tour di grande successo nel 1981. Ma anche se si ferma per qualche anno, non abbandona mai la carovana della musica, la sua più grande maestra di vita. Dal debutto ufficiale in un club della provincia di Varese nel 1953 sono trascorse quasi trenta primavere e molte cose sono cambiate. Il primo amore è per il jazz, ma poi si lascia contaminare dall’uragano del rock che lo porta a esibirsi in diversi locali milanesi. Con i Rocky Mountains accompagna Celentano, lui suona la tastiera e alla voce c’è Tony Dallara che però se ne va in breve tempo lasciando spazio al suo migliore amico. Insieme a Gaber, forma nel ’58 “I due corsari” e ne combina di tutti i colori. Il suo rapporto con il signor G continua anche quando decidono di sciogliersi, la sua morte sarà un colpo duro per il Dottore che lo considerava come un fratello. Ma torniamo agli anni sessanta, per la precisione al 1961.
Archiviata l’esperienza in coppia, Jannacci si presenta alla Rai per un provino e canta una canzone assurda dal titolo “Il cane con i capelli”. Al centro, ça va sans dire, lo sfigato che aveva già raccontato nella prima canzone del ’59, “L’ombrello di mio fratello”. L’escluso che entra in tabaccheria e nessuno gli dà le sigarette perché dai, non si è mai visto un cane con i capelli. Con i suoi occhiali, le sue strampalate invenzioni e i giochi di parole, la commissione del casting deve aver pensato che fosse un pazzo. Un alieno che da Marte si ritrova catapultato sul palco del Derby dove conosce uno dei suoi più grandi amici, Dario Fo. Diventano così complici da mettere in scena nel ’64 lo spettacolo “22 canzoni” e tra i brani che compongono c’è anche “La mia morosa la va alla fonte”. Quelle note, ispirate a una vecchia musica, ispirano a loro volta un giovane spettatore, Fabrizio De André, che le riutilizzerà per “Via del Campo”. Il rapporto tra i due prosegue anche dopo il successo, quando Fo è ormai un premio Nobel per la Letteratura e Jannacci un candidato all’Oscar per la colonna sonora di “Pasqualino Settebellezze”.
Anche Jannacci, come Gaber e Fo, è segnato profondamente dalla città di Milano. Una città piena di contraddizioni in cui la povera gente arranca e lui la omaggia con i canti in dialetto come “Andava a Rogoredo”, la storia di un infelice che cerca la morosa e i soldi che non gli ha più restituito. La più brutale è sicuramente “El portava i scarp del tennis”. Un barbone muore di freddo e di fame mentre il tipico business man milanese imbruttito passeggia indifferente. «Di Milano io amo i milanesi che soffrono. La nostra è una città troppo dura. Anche per chi ci sta bene, che è troppo duro a sua volta. Troppo motivato. Abitiamo in mezzo a gente tetragona. Tetragona e triste. No, in questa città fa troppo freddo. È troppo difficile sopravvivere».
Mano a mano che l’energia del boom economico si spegne, annichilita dai terribili Anni di Piombo, le canzoni di Jannacci diventano sempre più esplicitamente sociali. Nel 1989 partecipa per la prima volta a Sanremo con “Se me lo dicevi prima“, incentrata sulla lotta contro la droga. Due anni dopo, su quel palco si esibisce con Ute Lemper, emozionando pubblico e critica con il racconto di un bambino di tredici anni, freddato da un colpo mafioso di pistola. Testi duri, crudi tanto quanto la realtà. Una realtà animalesca, nel 33 giri “Discogreve” dell’83 ci sono brani come “Il maiale”, in cui tutti vogliono dare aria alla bocca e nessuno vuole ascoltare. Comunicare è diventato impossibile, tanto vale parlare ai limoni che forse ci capiscono più delle persone.
È paradossale, apparentemente si potrebbe pensare che sia il contrario, ma per essere ascoltati ci vuole orecchio. Ed Enzo ce l’ha avuto fin da quando era un bambino che, a orecchio, ha imparato a suonare la fisarmonica. Non basta però solo quello in un mondo spietatamente agguerrito. «Bisogna avere il pacco immerso, immerso dentro al secchio», sentire quella passione che arde dentro di noi e crederci fino in fondo. Crederci, pure se ti senti morto dentro, se non ti sono rimasti nemmeno gli occhi per piangere. Crederci, anche se non trovi la quadratura del cerchio e il criceto nella ruota non gira. Anche se quel treno che aspetti non passerà, se il telefono non squillerà, se i sogni non si realizzeranno. Crederci.
È questa l’eredità più importante che ci lascia il Dottore e che continua a vivere nei suoi film, nei suo sketch in televisione e nelle sue canzoni. Stare dalla parte degli ultimi e sostenerli, un’eredità che vale più di qualsiasi altra cosa. Un vessillo che continua a sventolare alto grazie a Paolo Jannacci che da quel papà follemente lucido ha imparato tutto il buono e lo porta sui palchi più prestigiosi. Come quando nel 2024, si è esibito al Festival di Sanremo con “L’uomo nel lampo” insieme a Stefano Massini. C’è un figlio cresciuto orfano e c’è un padre morto giovane in un incidente sul lavoro. Ma anche se non c’è più, anche se è uno dei tanti umiliati e offesi, da quella fotografia appesa in salotto non smette mai di parlare al figlio. «Non ho smesso un solo giorno. In silenzio, fotografato e muto, di dirti: ”Ciao Michè, sono il padre che non hai conosciuto”».