sabato 23 Novembre 2024

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Dj Matrix: “La trap? Più un brand che un genere musicale” – INTERVISTA

A tu per tu con l’artista classe ’87, negli store tradizionali e digitali con l’album “Musica da giostra”

Si intitola “Musica da giostra Vol. 6” il nuovo album di Matteo Schiavo, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Dj Matrix, uno dei disc jockey più amati dal popolo della notte e più seguiti dall’esercito del web. Grazie ai suoi tredici anni di attività possiamo considerarlo un giovane veterano, in grado di catalizzare l’attenzione dei giovanissimi senza tradire le aspettative del pubblico più adulto, che ritrova nella sua musica quella sana voglia di divertirsi tipica dei decenni passati. Anticipato dal singolo “Anche se non trappo”, che vanta la doppia collaborazione con Gabry PonteAmedeo Preziosi, il disco comprende ventitré tracce sospese a metà tra passato e presente, il tutto riassunto in un sound coinvolgente e senza tempo.

Ciao Matteo, partiamo da “Musica da giostra”, questo tuo progetto giunto al sesto volume. Cosa ha ispirato questa saga?

«Tutto è nato da “Tu vivi nell’aria”, una canzone che ha funzionato parecchio all’estero. Durante una serata in un locale in Spagna un organizzatore, tra l’altro italiano, mi ha fatto scendere dalla consolle dicendomi testualmente: “non puoi suonare perché fai la musica delle giostre”. Da quella che poteva sembrare apparentemente un’offesa gratuita, è nata orgogliosamente l’idea di questo progetto. Grazie allo Zoo di 105 ho iniziato ad avere una spinta portando in giro questo lavoro su scala nazionale, di volume in volume l’esposizione è aumentata».

Quale è stato il criterio di selezione delle tracce e delle varie numerose collaborazioni che compongono la tracklist?

«Le collaborazioni sono arrivate con la credibilità del progetto, quello che cerco di creare ogni volta è una scaletta che sia eterogenea e che accontenti tutti senza deludere nessuno, aprendomi sia alle nuove generazioni che agli ascoltatori più grandicelli».

Mai come in quest’epoca, fondamentale è il messaggio che gli artisti cercano di veicolare attraverso la propria musica. Cosa cerchi di trasmettere ai più giovani?

«Nelle mie canzoni non parlo mai volutamente di droga, i contenuti che desidero lanciare sono sani, certamente tra il mio pubblico ci sarà sicuramente qualcuno che fa uso di sostanze stupefacenti, ma non voglio essere io ad incoraggiarlo oppure a dare il cattivo esempio. Diciamo che il messaggio che intendo lanciare è di totale spensieratezza, le cose impegnate non mi appartengono, mi piace far divertire la gente in maniera sana e positiva, senza mai eccedere».

Un concetto ampiamente espresso nel tuo ultimo singolo “Anche se non trappo”, qual è il tuo pensiero a riguardo?

«Sicuramente si tratta di un’influenza americana, questo desiderio di spendere e spandere non appartiene al nostro DNA, onestamente penso che la trap sia più un brand che un genere musicale, uno stile di vita che può essere condivisibile o meno. A me personalmente crea disgusto, ostentare la bella vita non lo trovo un valore onesto, i giovani di oggi sono affascinati da questi esempi sbagliati, il che non può generare altro che ulteriore ignoranza. Frequento abitualmente i ragazzi in discoteca, vedo la piega che sta prendendo la nostra società, spero che qualcuno intervenga perché il fenomeno è a dir poco allarmante».

Da figlio degli anni ‘90 ti chiedo: la musica dance esiste ancora?

«Guarda non saprei, posso dirti che personalmente sto cercando di comporre musica dance senza restare troppo attaccato agli anni ’90, L’obiettivo è quello di inventarmi uno stile tutto mio, spero in parte di esserci già riuscito, un giusto mix tra quello che c’è stato in passato e le nuove sonorità, in modo da poter attirare sia il ragazzino che l’ascoltatore più nostalgico».

Che bambino sei stato? Avevi una consolle giocattolo? 

«Da piccolissimo no (ride, ndr) ma alla Prima Comunione mi sono fatto regalare una tastiera, da lì è nata la passione, poi all’età di 16 anni ho iniziato a frequentare le prime discoteche, sotto l’ala protettiva di un deejay locale di nome Paolo Zambon, a cui devo i miei primi passi. Ho sempre visto la parte bella della notte, sembra paradossale ma nella mia vita non sono mai andato a ballare, i locali li frequento solo per lavoro, devo ammettere di aver avuto la fortuna di frequentare ambienti belli e di crescere in posti sani di provincia, per cui ho sempre avuto una visione pulita della discoteca».

Quali sono i principali riferimenti musicali che hanno contribuito alla tua crescita?

«Beh, sicuramente gli Eiffel 65 di Gabry Ponte, Gigi D’Agostino, Prezioso e tutto ciò che è arrivato prima della musica house, dunque fino circa al 2002-2003, esattamente quando è entrato in vigore l’euro e la dance ha perso il suo reale valore e la propria concreta importanza».

Negli anni ’90 era quasi obbligatorio realizzare un remix di ogni singolo pop, secondo te, perché oggi la dance ha perso questa importanza ed è stata surclassata da altri generi come il rap?

«Onestamente penso che sia dipeso un po’ dalla globalizzazione, dalla scoperta di nuove culture anche attraverso la rete. Ogni epoca si lascia dietro un’epoca, anche se in questo preciso momento storico c’è tanta voglia di riscoprire la musica d’un tempo, forse perché nel nuovo non c’è veramente qualcosa di interessante, forse perché non c’è stata una reale evoluzione, è un po’ come se ci fosse stato un taglio netto con il passato. 

Per me la dance è uno stile di vita, non un genere musicale, da Raffaella Carrà a Cristina D’Avena, tutto ciò che ti fa divertire e ballare lo considero frutto di questo filone, ad esempio le sigle dei cartoni animati hanno il potere di farti tornare indietro nel tempo. Io non voglio far vivere la gente di ricordi, l’obiettivo è quello di continuare senza dimenticare».

Detto questo, in che direzione andrà la tua musica? Ci sarà un volume sette di “Musica da giostra” o stai pensando ad altro?

«Nella mia testa il mio obiettivo è quello di arrivare a quota dieci, il sogno è quello di raggiungere il disco d’oro, sarebbe davvero un bel riconoscimento per tutti questi anni di lavoro, di sforzi ma anche di puro divertimento. A livello di certificazioni ho già un platino e tre ori alle spalle ma, per questo progetto, sarebbe davvero un importante coronamento. Parallelamente sto anche lavorando ad altro, mi piace scrivere e portare avanti il mio discorso da cantautore, recentemente ho anche aperto una società editoriale.

C’è chi chiama la mia musica ignorante, inizialmente qualcuno l’ha definita trash, onestamente non mi riconosco in questa definizione, trovo che siano termini un po’ troppo abusati al giorno d’oggi. Nel mio piccolo cerco di portare avanti una certa qualità a livello sonoro, riconosco di saper fare il mio mestiere con passione, perché voler trasmettere spensieratezza non vuol dire lanciare contenuti non educativi o sbagliati. Piano piano i riconoscimenti arrivano, la professionalità e il duro lavoro ripagano sempre, in questo periodo in particolare sto scrivendo un pezzo per J-Ax. Insomma, ho per la testa tanti progetti, ma il più importante non ha a che fare con la musica».

Cioè? Di che si tratta?

«Il mio desiderio più grande è quello di formare una famiglia e di sistemarmi, ho una mentalità diversa rispetto a quello che si può pensare di un dj (sorride, ndr). Magari tanti miei colleghi hanno come obiettivo quello di fare gli stadi, mentre il mio è quello di mettere su una casa ed essere felice con la mia compagna. Personalmente la vivo con grande tranquillità, non cerco a tutti costi l’esposizione, non voglio diventare matto. Mi basta vendere le mie 10.000 copie e fare le mie serate, non chiedo di più».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.