A tu per tu con il rapper milanese, in uscita dal 5 aprile con “68 (Till the end)” contenente sette nuovi inediti
Tra le certezze della scena hip hop italiana troviamo Matteo Professione, in arte Ernia, considerato uno dei rapper più promettenti della nuova generazione. Dopo averlo incontrato lo scorso settembre in occasione del suo precedente progetto, lo ritroviamo per parlare di “68 (Till the end)“, repack contenente sette brani inediti tra cui spiccato tre interessanti featuring con Nitro (“Cento giorni”), Lazza (“Il mondo chico”) e Chadia Rodriguez (“Mr Bamboo”). L’artista milanese tornerà dal prossimo giugno in tournée, riabbracciando quella dimensione live che più lo rappresenta e lo rende vicino al suo pubblico.
Ciao Matteo, partiamo da “68 (Till the end)”, com’è nata l’idea di realizzare questa riedizione?
«Nasce dalla voglia di donare un tono un po’ più scanzonato, vicino al concetto del mix tape, in una maggiore proporzione, più di quanto non abbia fatto in “68”, il tutto senza discostarsi dal mio personaggio e da ciò che ho scritto in passato. Ho deciso di divertirmi, è un lavoro molto meno impegnato e più leggero, l’ho presa come una bella parentesi di spensieratezza».
Dal punto di vista delle sonorità e delle tematiche, rappresenta più la chiusura di un cerchio o un ponte che collega le tue produzioni passate al futuro?
«In realtà penso che vada al di là di qualunque logica, tutto è venuto fuori senza pensarci, di getto, non c’è uno studio vero e proprio. Non si può dire o sapere in che direzione andrà la mia musica in futuro, nel senso che non sono ancora in quella fase lì, prima di rimettermi in studio cercherò di proiettarmi in questo processo, per ora il dopo non si può ancora definire».
Nella nostra Penisola è più in crisi la discografia o il talento?
«Secondo me nessuno dei due, perché il settore discografico è in crescita e non succedeva dagli anni novanta, anche grazie a nuovi generi emersi come il rap e l’indie che sono riusciti a smuovere la musica italiana, fino a qualche anno fa troppo narcisista e poco votata all’originalità, fatta eccezione di alcuni artisti come Tiziano Ferro, riuscito ad emergere perché faceva qualcosa di diverso e molto internazionale».
Non credi che questo stia accadendo anche all’hip hop, che come il pop stia diventando un po’ un continuo ripetersi?
«Certo, con la differenza che tra un decennio gli attuali quindicenni porteranno una loro nuova tendenza, restando ancorati al mondo del rap, perché le loro influenze non sono state quelle del pop e della musica italiana, i riferimenti sono cambiati e le tendenze di oggi appartengono al filone hip hop».
In un mondo in cui si bada troppo alle visualizzazioni e poco alla realtà, tu appartieni ancora alla scuola di chi tende a conquistare il pubblico dal vivo, sul palco, più che dietro ad una tastiera. Cosa rappresenta esattamente per te la dimensione live?
«Guarda, sono sempre stato dell’idea che puoi avere tutte le visualizzioni del mondo, ma se non spacchi live non vali niente, non esisti, non sei uno da ricordare. Ci sono degli artisti che sono riusciti ad unire questi due aspetti, vedi Salmo o Sfera Ebbasta, sia i live che i social vanno benissimo, ma lo streaming da solo non può essere un metro di paragone per capire l’andamento di un artista. I live per me sono fondamentali, lì mostro chi sono veramente».
A proposito della sessione estiva live che riprenderà a giugno, cosa puoi anticiparci?
«Rispetto allo spettacolo proposto nel precedente autunno-inverno, sicuramente ci saranno le tracce nuove di “68 (till the end)”, mentre il team sarà lo stesso. Sai, a parer mio la tournèe estiva è sempre molto più divertente, anche il pubblico è molto più tranquillo e permissivo, perché in realtà è lì per divertirsi indipendentemente da come andrà il concerto. In più si fanno tanti Festival, incontri altri artisti, insomma l’umore è alto e te la godi di più».
Per concludere, quali sono gli aspetti del tuo mestiere che ti rendono orgoglioso di quello che fai e ti fanno dire “che figata il lavoro che faccio”?
«Il fatto che non tutti i giorni siano uguali, di non essere caduto nella rete della routine, poi ovviamente ci sono degli elementi che si ripetono, ma mi sento appagato da quello che faccio perché non ho schemi, orari e regole da seguire. La mia paura quando ero ragazzino era quella di dover timbrare il cartellino e lavorare in un ufficio, stare nello stesso posto e fare sempre le stesse cose, tipo catena di montaggio, caratterialmente preferisco vivere nell’insicurezza che pensare di fare una cosa per tutta la vita. Oggi non mi faccio più di tanto problemi, se dovesse finire con la musica m’inventerò sicuramente qualcos’altro (sorride, ndr)».
Nico Donvito
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